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Corsa alla Casa Bianca

Fattore Israele nelle presidenziali Usa

21 Set 2012 - Maria Grazia Enardu - Maria Grazia Enardu

Quando si parla di lobby ebraica, negli Stati Uniti, bisogna innanzitutto distinguere la lobby filo-Israele da quella ebraica vera e propria. È la prima che occupa molto spazio, compresa l’ Aipac, un Public Action Committee, che fa del sostegno a Israele il suo obiettivo principale. L’Aipac tuttavia non è esattamente una lobby ebraica, sia perché ne fanno parte molti non ebrei (ambienti politici, industriali, commerciali, etc.) sia perché non si occupa di temi che invece interessano le associazioni ebraiche vere e proprie.

Un esempio per tutti: di recente si è scatenata una furibonda polemica, in ambienti ebraici religiosi e laici, sia sulle modalità sia sul significato stesso della circoncisione dei neonati. Tema religioso, quindi ebraico, di importanza vitale – ma non interviene certo l’Aipac. Inoltre, mentre il singolare “lobby” è di uso quasi istintivo, andrebbe pensato come un plurale, articolato, che si allinea solo su grandi temi e in modo generale: appena i temi si precisano, le posizioni si distinguono e dividono.

Di assai difficile collocazione, ad esempio, è la relativamente giovane J Street, che non è esattamente una lobby ebraica (è molto laica) ma è filo-israeliana in modo diverso, anzi antitetico, alla corazzata Aipac. E questo crea mille dinamiche.

Altri organismi filo-Israele, come la Zionist Organization of America, affiancano istituzioni come la Jewish Council for Public Affairs, che è di matrice religiosa ma con estrema attenzione alla politica verso Israele. O la assai attiva Anti-Defamation League. Parte importante della lobby filo-Israele sono anche organizzazioni come la Christians United for Israel. Insomma i termini si sovrappongono, nei temi e nelle iniziative, ma non vanno mai confusi, perché partono da matrici diverse.

Ebrei democratici
Obama è partito da Chicago ed arrivato alla Casa Bianca affiancato da una schiera molto articolata di personalità di origine ebraica, incluso il suo ex capo di gabinetto e attuale sindaco di Chicago Rahm Emanuel , che aveva rinunciato alla doppia cittadinanza israeliana.

Obama, che ha una famiglia assai variegata, conta anche un cugino di Michelle rabbino (invitato all’insediamento) e un fratello ebreo. Tiene regolarmente un seder (cena rituale) di Pasqua: cominciò in campagna elettorale proprio perché aveva vari collaboratori che ci tenevano e da allora lo ripete, per tradizione, anche alla Casa Bianca. Si potrebbe quindi parafrasare la famosa definizione di Bill Clinton come il più nero dei presidenti americani: Barack Hussein è il presidente più ebreo che si sia mai visto nello Studio Ovale. Ed è democratico, come tradizionalmente gran parte degli ebrei americani. Ma qui il discorso si complica.

Nel 2008, Obama ha ottenuto una netta maggioranza tra gli ebrei americani, e invece ha perso tra i relativamente pochi americani ebrei che hanno votato per posta da Israele: dettaglio che dà da pensare. In casa vinse anche per il lavoro di molti giovani ebrei, con il “grande schlepping”: nipoti che andavano a trovare nonni poco convinti in distretti chiave, come la Florida, e li persuadevano a votare Obama.

Gli anni di governo e il cattivo rapporto con Netanyahu si stanno però facendo sentire. Non tanto sul mancato traguardo di una pace con i palestinesi, ma per le paure che un Iran nucleare suscita anche tra gli ebrei americani e il timore che una rielezione darebbe a Obama le mani libere per costringere Israele a politiche che non vuole.

Timore logico, è l’unica finestra per un vero negoziato con i palestinesi, ma anche speranza dei molti ebrei americani che considerano insostenibile la politica di occupazione, insediamenti e annessione strisciante che va avanti da più di 40 anni. E che temono l’isolamento e la delegittimazione di Israele molto di più di un negoziato doloroso, nonché le conseguenze di lungo periodo su tutto il mondo ebraico.

Sforzo costante del repubblicano Romney è stato invece di sfruttare tutti gli argomenti “ebraici” in chiave anti-Obama, compreso un assai discusso viaggio a Gerusalemme, dove nessun presidente americano ‒ nessuno ‒ ha mai collocato l’Ambasciata, che rimane fissa a Tel Aviv al fianco di tutte le altre.

Sfrangiamento
Nel groviglio di interessi e settori che sono le elezioni americane alcuni dati sono costanti, altri stanno cambiando. Gli ebrei made in Usa di solito votano democratico, anche se non sempre se sono ultraortodossi. Hanno un’età media più alta, soprattutto in stati chiave come la Florida che accoglie tanti pensionati, e sono quindi attenti a temi come l’assistenza sanitaria di Medicare. Gli ultraortodossi hanno invece famiglie numerose e sono statisticamente più giovani, molto vigili su questioni come la separazione tra chiesa e stato, garantita dalla costituzione, e contemporaneamente difendono uno stile di vita che può entrare in conflitto con norme varie (scuole, macellazione etc.).

Sicuramente la comunità ebraica, nella sua componente non ultraortodossa, sta cambiando: cresce l’assimilazione, muta il rapporto delle giovani generazioni con Israele, c’è più attenzione alle questioni comunitarie interne, e relativa allocazione di fondi, a scapito di istituzioni e soggetti in Israele, dove molto, specie nel settore istruzione, cultura e anche sanità è stato finanziato dagli ebrei americani.

La crisi prosciuga i fondi e le scelte diventano inconciliabili: spendere per aiutare in Israele o per mantenere la vita ebraica in casa? Gli ortodossi e ultraortodossi si assimilano meno, saranno loro il nucleo determinante di una comunità in evoluzione? E con quali conseguenze?

Insomma, una “lobby” che si sfrangia, non solo israeliana o ebraica, ma dando a questi termini significati diversi, rispetto ad anni fa: ebraico non vuol dire automaticamente filo-Israele e ogni questione va vista in sé.

Gli ebrei americani sono inoltre molto sensibili a qualunque cosa possa anche lontanamente essere configurata come double loyalty. Si considerano prima americani e poi ebrei ‒ con la consueta eccezione degli ultraortodossi, che si considerano soprattutto ebrei dovunque, anche in Israele. Per questi ultimi le norme religiose sono infatti più importanti delle leggi dello stato, concepito come istituzione transeunte in attesa del Regno del Messia.

Terreno di perenne e sotterraneo scontro tra le due grandi comunità è il virtuale monopolio degli ultraortodossi in Israele sulle conversioni, sui matrimoni, e sull’immigrazione in Israele di ebrei americani i quali, in base a questi rigidi criteri, possono essere considerati non abbastanza ebrei. Con enorme irritazione di molti ebrei della diaspora, che si sentono di serie B, chiamati a sostenere un paese che sembra non riconoscerli nemmeno.

Scivoloni
Un episodio che è stato contenuto ma che è di per sé esplosivo si è verificato pochi giorni fa. Netanyahu ha incontrato l’ambasciatore americano Shapiro e lo ha investito con collera sulla questione Iran, alla presenza di un esponente repubblicano che ha detto di non aver mai visto una scena del genere.

Tutti possono perdere le staffe, ma in scenario elettorale, alla vigilia di importanti decisioni e contro un ambasciatore che per di più è un ebreo nominato da un democratico, potrebbe sembrare un autogol. Molti ebrei americani si saranno sentiti stretti tra la lealtà al proprio stato e i legami con un paese, dove il governo fa spesso uso strumentale di questo delicatissimo aspetto. L’Ambasciatore Shapiro ha smentito tutto e se l’è cavata benissimo, ma l’incidente è grave, confonde religione e politica, affari personali e pubblici, che in America vanno tenuti separati, sempre.

Ogni elezione americana serve sia a designare un presidente, con un meccanismo farraginoso e per niente matematico, ma anche a ristudiare le mappe elettorali, distretto per distretto, marcando le evoluzioni demografiche, economiche, culturali, delle varie componenti della grande società americana.

A novembre sapremo chi sarà alla Casa Bianca nel 2013-16. Poco dopo sapremo come ha votato la comunità ebraica, se si può ancora parlare di “lobby” (ebraica, israeliana, quel che è) o se bisogna parlare di gruppi con dinamiche diverse, sempre più articolate, ma non necessariamente imprevedibili. Cioè di lobbies, preferibilmente al plurale.

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