Le tre parole che faranno o disfaranno l’Europa
Il dibattito che sta lacerando l’Europa e che potrebbe portare alla sua dissoluzione riguarda solo in parte le filosofie di politica economica: monetaristi contro keynesiani, liberisti contro intervenzionisti. Per capirlo pienamente bisogna invece soffermarsi su tre parole: solidarietà, fiducia, sovranità. Sono esse che determineranno il nostro destino. Le prime due sono le facce di una stessa medaglia.
Solidarietà
Usando una facile ma utile semplificazione, per il “Sud” il problema è la solidarietà. Gli sforzi necessari per risanare le finanze pubbliche e attuare le riforme strutturali sono considerati politicamente insostenibili in assenza di massicce misure di solidarietà, di cui gli eurobond rappresenterebbero la manifestazione più compiuta. La tesi non è priva di fondamento. Le riforme strutturali sono indispensabili nel medio periodo, ma non producono necessariamente risultati immediati; in più, per essere politicamente e socialmente sostenibili a volte nel breve periodo sono anche costose.
Ne dovrebbe sapere qualcosa la Germania: i costi delle grandi riforme lanciate dal governo Schroeder all’inizio dello scorso decennio furono una delle cause per cui il paese non rispettò a suo tempo il patto di stabilità. Poi ci sono i mercati che, scettici sulla credibilità delle riforme e giudicando insufficienti le misure di solidarietà, attaccano i paesi vulnerabili spingendoli verso una spirale perversa di deficit e recessione che rende le riforme ancora più ardue.
L’onere dell’aggiustamento non può inoltre essere asimmetrico, ma deve riguardare anche i paesi virtuosi. Il tutto può essere riassunto in uno slogan: l’austerità senza solidarietà non produce crescita ma recessione.
Fiducia
Visto da “Nord” il problema è invece la fiducia. Se noi, pensano i tedeschi, abbiamo attuato penose riforme che ci hanno rimesso in carreggiata, perché non altri? Il Sud ha assunto troppi impegni poi disattesi perché si possa avere fiducia prima di vedere risultati tangibili. Perché noi dobbiamo andare in pensione a 67 anni e gli altri a 60? Così si spiega la lenta e riluttante evoluzione della posizione tedesca.
La fiducia è un bene intangibile, che non si può stampare né misurare. Sottovalutare questa preoccupazione bollandola come semplice egoismo è un errore molto pericoloso. Accettare gli eurobond sarebbe per i tedeschi un sacrificio paragonabile alla rinuncia al marco. Non capendolo si rischia di consolidare la posizione di chi, come il popolarissimo Sarrazin, sostiene che gli europei vogliono far pagare la Germania perpetuando il ricatto dell’olocausto. L’eterna riedizione di il faut faire payer les boches. D’altro canto bisognerà pure che qualcuno risponda alla domanda: quanta fiducia è necessaria per fare un salto di qualità?
Sovranità
Messo in questi termini, il problema è potenzialmente insolubile perché mette in campo la terza parola magica: la sovranità. Visto da Sud, il Nord non può imporre a Parlamenti sovrani decisioni giudicate politicamente o socialmente insostenibili: è una spogliazione della democrazia. Visto da Nord, anche un massiccio impegno di solidarietà è un sacrificio di sovranità, in questo caso a carico dei contribuenti. La prospettiva è percepita come particolarmente intollerabile se accompagnata dalla richiesta di diventare meno “virtuosi”.
Il problema della sovranità, da sempre al centro del processo d’integrazione europea, è diventato più acuto da quando la Corte costituzionale tedesca ha assunto posizioni giudicate non a torto “golliste” e si è avuta l’impressione di un direttorio franco-tedesco che imponeva le sue decisioni al resto dell’Europa.
Resta valida ancora oggi la principale intuizione di Monnet: la condivisione della sovranità è possibile solo se governata da istituzioni indipendenti e percepite come tali. È inutile sforzarsi di reinventare l’ombrello: l’unica istituzione in grado di assumere questo compito, oltre alla Banca centrale europea (Bce) che però ha un mandato ben definito, è la Commissione europea.
Negli ultimi anni il suo ruolo e la sua autorità si sono appannati: in buona parte per volontà dei governi, anche se la Commissione ci ha certamente messo del suo. Il paradosso è che nonostante questo, le ultime decisioni prese, il “six pack” ma anche il “fiscal compact” rimettono la Commissione quasi suo malgrado al centro del sistema. Il guaio è che ristabilire il ruolo della Commissione non basta a risolvere il problema della sovranità. Le decisioni che devono essere prese sono troppo importanti per non porre anche una questione di legittimità.
I federalisti reclamano a gran voce un ruolo maggiore per il Parlamento europeo. È giusto e necessario, ma non basta. L’origine del problema sta nella percepita spogliazione dei Parlamenti nazionali e quello europeo non ha ancora l’autorità sufficiente per riempire completamente il vuoto di democrazia che rischia di crearsi.
Deve essere trovata una formula per associare pienamente al processo anche i Parlamenti nazionali. Anche la legittimità della Commissione deve essere rafforzata; la situazione attuale che ne fa, di fatto, un’emanazione dei governi non è sufficiente a liberare i commissari dalla stigma di essere dei “tecnocrati irresponsabili”. Non è un caso che si parli dell’elezione diretta del suo Presidente o, oggi più realistico, di una sua designazione come risultato delle elezioni europee.
Parigi e Roma
È quindi riduttivo sostenere che l’avvenire dell’Europa “dipende dalla Germania”. Certo, è stata lenta nel capire la portata della crisi, ha centellinato misure di solidarietà sempre sotto la soglia di credibilità e si è mossa spesso in modo arrogante. Tuttavia sarebbe un errore sottovalutare il problema della fiducia; s’illudono coloro che pensano che un futuro governo a guida o con una forte presenza socialdemocratica sarebbe portatore di istanze radicalmente diverse da quelle attuali.
La Germania brandisce, alcuni dicono come un bastone, l’ostacolo della sua Corte costituzionale a ulteriori cessioni di sovranità. D’altro canto, Angela Merkel e Wolfgang Schauble sono gli unici leader europei importanti ad aver delineato un futuro politico per l’Europa che si può definire quasi federalista. Nessuno ha raccolto il loro appello.
Oltre alla Germania, ci sono altri due paesi da cui dipende l’avvenire dell’integrazione: la Francia e l’Italia. Il primo appartiene al Nord, ma ha un piede nel Sud. Il secondo appartiene al Sud ma ha un piede nel Nord. Entrambi sono indispensabili; si possono immaginare varie forme di nuclei duri, ma senza uno di questi due paesi non avrebbero senso. Sul piano della vocazione sovranazionale, se si eccettuano le fluttuazioni della parentesi berlusconiana, l’Italia ha le carte in regola. Lo stesso è vero per la volontà riformatrice dell’attuale governo. Tuttavia la rissosità della classe politica, la gravità dei problemi strutturali, la prospettiva di un incerto appuntamento elettorale e il disorientamento dell’opinione pubblica fanno sì che la fiducia nei confronti dell’Italia non sia ancora pienamente ristabilita.
Il problema francese è più complesso. I problemi strutturali della Francia sono meno gravi di quelli italiani, ma le rigidità forse maggiori. Sarkozy era stato eletto su un programma riformatore e lo ha disatteso. Il suo successore rischia di annullare alcune delle modeste riforme attuate, ma soprattutto di non intraprenderne di nuove restando prigioniero delle corporazioni (sindacati e dipendenti pubblici) che lo hanno eletto.
Quello della fiducia nei confronti della Francia potrebbe diventare un problema molto acuto. Anche chi punta sulla moderazione di Hollande e sulla sua capacità di influenzare le rigidità tedesche, deve porsi il problema della posizione francese in materia di sovranità. Sarkozy non lasciava dubbi su questo punto: si poneva pienamente nella tradizione gollista. Di Hollande non sappiamo ancora nulla tranne che è l’esponente di un partito che si divise sulla ratifica dei trattati di Roma, poi ancora su Maastricht e infine sul progetto di Costituzione.
Prometeo incatenato
Resta infine la Grecia, che rischia di essere il detonatore della “tempesta perfetta”; nel suo caso le tre “parole magiche” assumono un significato particolare. Nessuno dubita che un’uscita della Grecia sarebbe gravissima per tutti. Molti però si pongono la domanda seguente: la Grecia è solo l’esempio più acuto dei problemi strutturali che affliggono tutto il Sud, oppure bisogna considerarla un caso unico e probabilmente insolubile? Purtroppo nemmeno le imminenti elezioni ci daranno una risposta definitiva. Per il resto degli europei il dilemma è tuttavia drammatico.
Se è vera la prima ipotesi, una ridefinizione in termini più realistici del programma di risanamento accompagnato da più intense misure di solidarietà dovrebbe essere possibile. C’è però anche chi sostiene che il problema è diverso, nel senso che le strutture statali della Grecia sono incapaci di attuare un programma di riforme che affronti, oltre alla riduzione delle spese, anche quella della corruzione e della massiccia evasione fiscale; problemi certo comuni ad altri paesi del Sud, ma in Grecia di natura radicalmente diversa.
Sarebbe in questo caso necessario una messa sotto tutela molto più pesante dell’apparato politico e statale, che i Greci potrebbero legittimamente considerare come un’espropriazione della loro democrazia e solo della loro. In questo caso, l’uscita del paese dall’euro diventerebbe inevitabile. Il problema dell’Europa sarebbe allora di difendersi a tutti i costi dal contagio, stabilendo un efficace “cordone sanitario”. In teoria si potrebbe programmare in vista delle due ipotesi. In pratica l’operazione è estremamente rischiosa perché qualsiasi segnale che l’Europa si prepara al secondo scenario, renderebbe più ardua e forse impossibile la gestione del primo.
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