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Morsi presidente

Egitto sul piano inclinato

30 Giu 2012 - Giorgia Manno - Giorgia Manno

Per la prima volta nella storia dell’Egitto, un islamico, esponente della Fratellanza musulmana, è stato eletto presidente democraticamente con il 51,73% dei voti. Mohamed Morsi, ingegnere formatosi negli Usa e membro di Libertà e Giustizia, ha avuto la meglio su Ahmet Shafiq, candidato dei militari. La transizione egiziana si arricchisce dunque di un nuovo, e probabilmente cruciale, protagonista, cui spetta ora la non facile impresa di traghettare il paese oltre le secche dell’eredità Mubarak. Gli equilibri dell’Egitto sono destinati a ripercuotersi in tutto il mondo arabo. Le sfide della presidenza sono numerose e le aspettative dell’opinione pubblica alte. Così come le minacce alla stabilità nazionale.

Montagna da scalare
La società egiziana è divisa sul piano politico e religioso, l’opinione pubblica è stanca e delusa della confusa transizione e del progressivo deterioramento della sicurezza. Stando alle prime dichiarazioni, Mohamed Morsi intende dar vita a un governo di unità nazionale guidato da una personalità estranea alla Fratellanza musulmana e con un copto, una donna e una personalità vicina a piazza Tahrir alla vicepresidenza.

La Fratellanza sembra infatti non poter prescindere dal sostegno delle altre forze politiche per governare il paese, e la presenza delle componenti più liberali potrebbe rassicurare chi teme una eccessiva “islamizzazione” del quadro politico. Non ultima la comunità internazionale.

Secondo Khaled Elgindy, della Brookings Institution di Washington, la nascita di un governo di coalizione consentirebbe a Morsi di iniziare ad arginare il potere dei militari, ancora incombente. Se la Fratellanza decidesse invece di fare a meno dei liberali, confermerebbe la linea intransigente degli ultimi sedici mesi, rischiando di indebolirsi rapidamente.

Sul piano regionale, la vittoria di Morsi contribuisce al rimescolamento dei rapporti di forza in corso da oltre un anno. Il nuovo presidente, ad esempio, avrebbe già mandato timidi segnali di apertura (alcuni poi smentiti) verso l’Iran, infiammando l’opposizione interna e rischiando di accrescere le tensioni con gli alleati occidentali dell’Egitto, a partire dagli Stati Uniti.

Come sostiene Martin Indyk, direttore del programma di politica estera della Brookings, sebbene gli Usa abbiano perso influenza in Egitto e nella regione, il rapporto con Washington rimane determinante per ragioni che vanno ben oltre il pur rilevante prestito di oltre due miliardi di dollari (di cui oltre la metà in aiuti militari) l’anno che Il Cairo riceve.

Nelle sue prime uscite Morsi ha anche cercato di rassicurare Israele, annunciando il rispetto dei trattati internazionali in vigore: un chiaro riferimento agli Accordi di Camp David, più volte oggetto di polemica durante la campagna elettorale. Tel Aviv ha risposto diplomaticamente, pur rimanendo preoccupata dei legami dei Fratelli musulmani con Hamas. La nomina di un ministro degli esteri esterno alla Fratellanza potrebbe giovare ai rapporti con Israele e con l’Occidente.

Tra le priorità del nuovo presidente c’è anche l’esigenza di rassicurare le monarchie del Golfo, dai cui investimenti di decine di miliardi di dollari dipende il lavoro di milioni di egiziani. Le monarchie sono infatti sempre più preoccupate dell’espansione della “primavera araba” all’interno dei loro confini (a partire dall’Arabia Saudita).

Economia e moschetto
La più grande emergenza di Morsi, tuttavia, è la crisi economica. La stabilità politica è imprescindibile per sanare il bilancio fiscale 2012-2013 (che presenta un deficit di 22,5 miliardi di dollari), cercare di combattere la disoccupazione dilagante e rilanciare settori chiave come turismo e infrastrutture.

Nelle ultime settimane la borsa egiziana ha registrato un calo del 4,6%, il più grave da novembre 2011. Gli investitori sono alla finestra per vedere cosa accade, ma l’incertezza potrebbe protrarsi per diversi mesi. I fondi internazionali promessi all’Egitto sono dunque fondamentali per il suo rilancio. Con l’elezione di Morsi dovrebbe essere confermata l’erogazione del prestito di tre miliardi di dollari del Fondo monetario internazionale (condizionato all’elezione di un parlamento e governo democratici e alla formulazione di un piano di riforme economiche) e di altri prestiti e donazioni, in particolare da parte di Ue, Banca centrale europea e Banca europea per la ricostruzione.

I militari, che guidano il paese dalla caduta di Mubarak attraverso il Consiglio militare supremo (Cms), hanno riconosciuto la vittoria di Morsi, ma sono comunque riusciti a mantenere ampi poteri. Alla vigilia del ballottaggio il parlamento – dominato dai Fratelli musulmani dopo le ultime elezioni – è stato sciolto su decisione della Corte Costituzionale. I militari si sono quindi attribuiti i poteri legislativi e di bilancio, e potranno nominare una nuova Commissione costituzionale, disponendo del potere di veto nella stesura della Costituzione per tutte le questioni attinenti al “supremo interesse nazionale” e mantenendo competenza esclusiva nel settore della sicurezza e difesa.

I militari continuano inoltre ad avere il controllo diretto del 35-40% dell’economia nazionale, essendo a capo della produzione militare, industriale e agricola, dell’amministrazione pubblica e di altri settori. Condividono rilevanti interessi con l’industria civile egiziana e anche il settore giudiziario non è immune dal loro controllo. La maggior parte dei diciotto giudici della Corte Suprema è stata nominata durante il regime di Hosni Mubarak. Lo stesso presidente, Farouq Sultan, ex ufficiale dell’esercito, è a capo della commissione elettorale.

Tacito accordo
Morsi non ha grande carisma e per la sua elezione deve in gran parte ringraziare la forza della macchina elettorale della Fratellanza. Il movimento ha saputo intercettare il favore di un’opinione pubblica frammentata e di una parte delle organizzazioni protagoniste della “primavera egiziana”, ed ora può utilizzare questo consenso per arginare le ambizioni nostalgiche e restauratrici dei vertici militari.

Migliaia di persone, infatti, presidiano da giorni Piazza Tahrir, protestando contro l’arroganza dei militari e chiedendo il ripristino del parlamento democraticamente eletto. Morsi si è associato ai manifestanti chiedendo ai militari di prestare giuramento davanti al potere legislativo ripristinato, ma nei suoi primi discorsi ha anche espresso profondo rispetto verso l’esercito. Ciò rende verosimile l’ipotesi di un tacito accordo tra Fratellanza musulmana e Cms a favore della stabilità nazionale. Sin dalla caduta di Mubarak, del resto, i due attori si sono in più occasioni sostenuti a vicenda in un gioco delle parti non sempre trasparente.

Un accordo potrebbe rappresentare un vantaggio per i militari, che condividerebbero la responsabilità politica ed economica del paese, e giovare alla Fratellanza, che potrebbe trovare un alleato fondamentale per affrontare le difficili sfide imposte dalla crisi. Il nodo “parlamento” rappresenta il primo banco di prova del rapporto tra presidenza e esercito. La Corte costituzionale ne discuterà il 7 luglio, rispondendo ai numerosi appelli che le sono giunti. In caso di intesa, Morsi chiederà ai cittadini di accettare lo status quo, sacrificando, per il momento, il ripristino del parlamento.

L’Egitto è un punto di riferimento per tutti i paesi attraversati dalla primavera araba. L’esito del dialogo in corso tra le principali forze nazionali sarà fondamentale per il futuro della regione. L’esercito rimane pienamente in campo, ma non sembra voler bloccare la transizione democratica, mirando piuttosto a tenerla sotto controllo. I militari vogliono mantenere un “ruolo speciale” che gli garantisca i privilegi economici di cui hanno sempre goduto.

Uno scenario simile a quello turco degli anni ottanta, ma aggravato da una crisi economica che rischia di mantenere il paese in ginocchio ancora per molti anni. Con conseguenze estremamente pericolose non soltanto per l’Egitto.

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