Trivelle in mare, Italia nel guado
Sempre oscillante tra il fare e il non fare, l’Italia sembra non aver deciso se sfruttare al meglio le potenzialità energetiche dei propri mari o arroccarsi, unica in Mediterraneo ed in Europa, in una difesa ad oltranza dell’ambiente. Sulla spinta della crisi finanziaria la situazione potrebbe però cambiare.
Il ministro dello sviluppo economico Corrado Passera in un recente intervento al Senato ha infatti dichiarato: “Abbiamo ingenti riserve di gas e petrolio che possono soddisfare il 20% dei consumi nazionali dal 10% attuale”. E ha precisato che “si può ridurre la bolletta per le importazioni di energia di sei miliardi, aumentando il Pil di mezzo punto”, a patto di adeguare agli standard internazionali ed europei la normativa italiana di autorizzazione e concessione che è estremamente complessa.
Sulla stessa linea l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, secondo cui se si eliminassero i vincoli che impediscono “lo sfruttamento di petrolio e di gas praticamente in tutti i mari italiani”, si creerebbero migliaia di nuovi posti di lavoro e si avrebbero cospicue entrate per lo stato e risparmi sulla bolletta energetica.
No trivelle
Sull’onda delle istanze ecologiste manifestatesi in alcune zone costiere della Sicilia e della Puglia (a Monopoli soprattutto) è nato un movimento di opinione contrario alle trivellazioni in mare in nome della tutela del paesaggio e dell’ambiente e della crescita dell’alternativa turistica. Analoga ostilità inizia ad essere espressa per il gasdotto Tap (Trans Adriatic Pipeline) che dalla Grecia dovrebbe approdare sulla costa pugliese.
Tenendo conto di ciò nel recente decreto legge sulle liberalizzazioni non è stata inserita una modifica legislativa inizialmente ipotizzata per consentire le trivellazioni in mare a meno di cinque miglia (mg) – invece delle 12 attuali – dalle aree costiere e marine protette. Il regime in vigore è perciò rimasto quello del Codice dell’ambiente (D.Lgs 152/2006) che, per le altre zone di fondale, stabilisce invece il limite delle cinque mg dalle linee di base del mare territoriale (con l’eccezione delle acque interne del Golfo di Taranto ove la distanza si misura dalla costa).
Limiti zone vietate a fronte aree ricerca (fonte Sviluppo economico).
Approccio europeo
Pur contraria alla proposta italiana di una moratoria delle attività estrattive in mare, la Commissione europea ha adottato un approccio razionale al problema dei possibili pericoli all’ambiente marino incentrato sulla prevenzione e sulla standardizzazione dei requisiti tecnici.
In attesa dell’approvazione di un’apposita regolamentazione dedicata alla sicurezza delle operazioni al largo (offhore), la Commissione ha anche istituito l’European Union Offshore Oil and Gas Authorities Group come referente della materia con funzioni consultive e di controllo tra gli stati membri. Il Parlamento europeo sta inoltre per ratificare il Protocollo di Madrid del 1994 sulla Protezione del Mediterraneo contro l’inquinamento da attività offshore.
L’accordo stabilisce misure di sicurezza e piani di contingenza per fronteggiare emergenze tipo Deepsea Horizon, nonché la mutua collaborazione tra gli Stati aderenti e l’assunzione di responsabilità da parte degli operatori commerciali anche mediante specifica copertura assicurativa.
Campi eolici
Le wind farms marine sembravano essere l’alternativa alle trivelle. Ma dubbi vengono sollevati in Italia e negli altri paesi europei sul loro impatto sugli ecosistemi naturali, pesca compresa, e sul paesaggio oltre che sugli oneri finanziari delle necessarie reti elettriche. D’altronde lo stravolgimento del territorio di alcune regioni come la Basilicata e la Puglia, ove vi è stata una vasta installazione di pale, è già ormai evidente.
Alcuni Stati europei come la Gran Bretagna e Germania, dopo averle diffuse in mare in modo massiccio, si accingono ora a riconsiderarne i costi/benefici. Esse potrebbero però tra breve diffondersi nel Mediterraneo.
A qualche decina di miglia dalle coste siciliane – dove di recente il ministero dell’Ambiente ha espresso parere contrario alla realizzazione di una grande centrale offshore di 38 enormi pale – Malta progetta infatti di realizzare con fondi europei mega campi eolici marini galleggianti posizionati su fondali di 100/200 mt. Per evitarne l’impatto sui nostri mari adiacenti bisognerebbe avviare con Malta una cooperazione cross border.
Accaparramento
Ben consci del fatto che le agenzie di rating individuano tra i parametri di solidità economica lo sviluppo delle attività di trivellazione, molti stati mediterranei si sono lanciati nello sfruttamento, anche in fondali profondi, di nuovi giacimenti di gas e petrolio. La corsa è in atto nel Mediterraneo orientale tra Cipro, Israele ed Egitto (cui potrebbe presto unirsi il Libano).
Sullo sfondo, Turchia e Grecia studiano le mosse da giocare nella interminabile disputa dell’Egeo. La Libia, dopo aver autorizzato nel 2010 la British Petroleum ad eseguire prospezioni a mille metri di fondale nel Golfo della Sirte, ha ora congelato ogni concessione pur onorando quelle assegnate all’Eni nei vari giacimenti, ed in particolare in quello offshore di Bahr Essalam che alimentano le vitali forniture di gas all’Italia attraverso il gasdotto Greenstream.
L’Italia, per parte sua, attende di concludere gli accordi di delimitazione della piattaforma continentale ancora mancanti, come quello fondamentale con la Libia e Malta che darebbero certezza alle attività di prospezione.
A fronte della cautela libica ed italiana, lo scorso anno Malta ha invece aperto alla ricerca, con un bando europeo e in spregio a qualsiasi principio di diritto internazionale, un’enorme area che si spinge ad est sin sotto la Grecia e che a nord delle Pelagie si sovrappone a quella già sotto giurisdizione italiana sulla base dell’accordo di delimitazione con la Tunisia del 1971.
Si tratta quindi di una pretesa unilaterale su zone in cui l’Italia ha titolo al riconoscimento di propri diritti in accordo con i principi affermati dalla Corte internazionale di Giustizia nell’ambito della causa Malta-Libia del 1985.
Le aree di interesse italiano ad est ed ovest di Malta secondo la ICJ.
Conciliare l’inconciliabile
All’odierno unilateralismo ecologista non può fare riscontro la trivellazione selvaggia che deturpi del tutto le coste già distrutte da anni di cementificazione ed inquinamento nell’indifferenza generale. Ma non è nemmeno possibile demonizzare le fonti energetiche fossili, dopo aver bandito il nucleare, a favore delle sole rinnovabili, senza tuttavia impostare una seria politica di austerità dei consumi che riduca la (comoda) dipendenza dalle forniture estere di gas, petrolio ed energia nucleare.
Ipotizzare dunque, per ora, l’avvio di attività estrattive in zone marine extraterritoriali dove vi sono giacimenti che dalla costa si ramificano verso il largo non è un’eresia, ma una semplice misura di buon senso giustificata anche dalle impellenti esigenze finanziarie e regolamentata dalla Commissione europea. Il patrimonio dei fondali della piattaforma continentale italiana appartiene alla nazione e va valorizzato nell’interesse di tutti pur nel rispetto dell’ambiente e del paesaggio.
È ora il momento che un cavaliere bianco intervenga in aiuto del paese come ha sempre fatto. Questo non può che essere l’Eni, azienda di grande tradizione che sembra intenzionata a ritornare, nell’ovvio rispetto dei principi della concorrenza, nei nostri mari oltre ad operare nel Mar Libico, nel Golfo di Guinea, nel Mare di Barents ed in Mar Nero.
Gli interessi dell’Eni, che è in grado di utilizzare le migliori pratiche per la protezione dell’ambiente e che in passato ha concorso allo sviluppo dell’offshore nazionale ed alla definizione dei limiti della nostra piattaforma continentale, coincidono ancora con quelli dell’Italia. Se invece prevarrà il massimalismo, l’inerzia o la diffidenza, se ne avvantaggeranno i nostri vicini che avranno mano libera per fare a qualche decina di miglia da noi, magari con società non affidabili, quello che noi non vogliamo fare.
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