L’Italia nella silenziosa rivoluzione della Nato
A Chicago, la città di Barack Obama, si è appena concluso il 25° Vertice dei Capi di Stato, di governo e dei ministri degli esteri e della difesa dei 28 paesi della Nato. L’obiettivo principale era quello di dare un seguito e fare il punto sulle decisioni prese durante il Vertice di Lisbona del novembre 2010, dare impulso ai concetti-chiave della dottrina dell’Alleanza e riaffermare il legame transatlantico. Obiettivo conseguito senza traumi e in assenza di emozioni, considerato che in questi summit ogni cosa è predisposta con cura e con molti mesi di anticipo e che solo raramente – considerata la condizione di unanimità che deve sostenere ciascuna decisione – c’è reale discussione su temi che non siano stati precedentemente concordati.
Gli unici elementi di novità, il primo già noto sin dalla fine di aprile, sono stati la mancata edizione del vertice Nato-Russia, dichiaratamente rinunciataria per non affrontare i soliti nodi – allargamento a Est e scudo difensivo – che da tre o quattro anni rendono piuttosto freddo il rapporto, la presenza del presidente pachistano Zardari e l’annuncio del ritiro dei francesi dall’Afghanistan con buon anticipo rispetto al 2014. Secondo gli esperti, l’assenza dei russi, che hanno inviato solamente un funzionario degli esteri di livello non elevato, non cambierà di molto la valenza dei due problemi – estensione a est e scudo – né il percorso per affrontarli.
Cosa che, in un certo senso, rinverdisce il lustro dell’Italia attraverso il ricordo dello spirito costruttivo del summit di Pratica di Mare, che aveva consentito il riavvicinamento – almeno su alcuni temi – tra Russia ed Alleanza atlantica. È degno di nota che, pur in assenza di vere e proprie nuove decisioni, la partecipazione di 60 paesi abbia reso questo vertice il più affollato degli ultimi anni.
Nuovo assetto
L’agenda, a parte alcune sfumature ed appendici, è stata quella già preannunciata dal Segretario generale Anders Fogh Rasmussen il 30 settembre dell’anno scorso, in occasione di un suo intervento all’European Policy Center di Bruxelles. Ogni presentazione e discussione è stata quindi focalizzata su tre temi generali, all’interno dei quali hanno trovato spazio argomentazioni più specifiche. Così, l’argomento Afghanistan conteneva, oltre a un punto di situazione – che la Nato deve necessariamente valutare in chiave ottimistica – l’ impegno ad assistere il paese durante la transizione e ben oltre il 2014.
Il punto di agenda che prevedeva una valutazione della capacità dell’Alleanza di continuare ad assicurare la difesa della popolazione e del territorio e, nel contempo, affrontare le sfide poste dal 21° secolo (difesa cibernetica), ha visto la trattazione del concetto di smart defence, tanto caro a Rasmussen e agli Usa. Anche il terzo tema, ovvero il rafforzamento a livello globale del network di partner della Nato, ha fatto da contenitore ad altri tipi di considerazioni, con l’esortazione a considerare questo “allargamento” non più alla stregua di un lusso, ma di una necessità in termini strategici.
La Nato, infatti, deve progressivamente trasformarsi da organizzazione regionale in strumento globale. Mentre il primo ed il terzo tema sono autoesplicativi, e quindi intuitivi, assai di meno lo è il concetto di smart defence, per il quale vorrei rimandare il lettore alla chiara illustrazione che ne ha fatto su queste pagine Alessandro Marrone, in un articolo del 7 maggio scorso. Tema importante in presenza di crisi e scarsità di risorse, sul quale tutti si sono genericamente impegnati – e non potevano farne a meno – ma che non mancherà di incontrare forti resistenze a livello di industrie nazionali al momento di una sua applicazione letterale.
Non si tratta più, infatti, di standardizzazione degli armamenti, di razionalizzazione della spesa, di pooling degli assetti, di rinuncia a certi compiti (ad esempio la difesa aerea, coma hanno già fatto Slovenia e Croazia) affidandoli ad altri. A questo siamo ormai abituati, e in una certa misura già cerchiamo di farlo. Questa volta verremo proprio spinti a decidere, in ambito Nato, “chi fa che cosa” anche a livello industriale. Si tratta di un ulteriore passo avanti nel concetto di “specializzazione”, che certamente – nonostante le positive affermazioni di principio – creerà, anche qui da noi, malumori, resistenze ed ostacoli.
In parole povere, è come dire che saremo chiamati a sconvolgere e ricompattare in Europa l’attuale assetto di tutta l’industria nazionale della difesa. Questa, per intenderci, è la reale portata del provvedimento, e chi non ha voluto o saputo investire dotandosi per tempo di un sistema forte è destinato a soccombere.
Italia in pista
Su tutti i principali argomenti l’Italia questa volta si è presentata con una posizione precisa, che i ministri degli esteri e della difesa avevano già anticipato alle relative Commissioni parlamentari, riunite lo scorso 15 maggio. In questa sede, Terzi ha spiegato come l’Italia, per suo conto, si impegnerà a mantenere vivo e proficuo l’indispensabile rapporto tra Nato e Russia, adoperandosi per il conseguimento di questo obiettivo non solo all’interno dell’Alleanza, ma anche dei confronti della leadership russa.
Sulla difesa missilistica, Terzi ha testualmente affermato che “… c’è certamente un lavoro da fare perché il sistema, così com’era stato impostato inizialmente, dava ragioni di disturbo a Mosca”. Ha poi soggiunto che su questo tema abbiamo già speso molte parole, ma “… pur non potendo predire il futuro, continueremo a fornire la nostra presenza”. Sempre sul tema, Di Paola ha aggiunto che “… se si riuscirà a trovare un’intesa con la Russia sulla difesa missilistica, ciò comporterà un salto strategico di qualità nelle relazioni Nato-Russia”, la quale, pur assente, ha rappresentato durante l’intero summit il convitato di pietra.
Circa la smart defence, pur nella consapevolezza delle conseguenze è difficile esimersi dal condividere qualcosa di cosi razionale. Sulla permanenza della collaborazione con l’Afghanistan post-2014 la posizione italiana, ribadita anche dal presidente della Repubblica, è chiara: non lasceremo il lavoro a metà, abbandonando il paese al suo destino. Tra l’altro, è stato ricordato che il presidente del Consiglio Mario Monti già a fine gennaio aveva firmato con il presidente Karzai, primo in Europa e secondo solo ad Obama, un accordo per una collaborazione futura. Successivamente, un accordo simile è stato firmato anche da India, Francia, Germania e Regno Unito.
Sono vertici, questi, che non possono certo concludersi in un clima di esultanza, ben sapendo che il concetto di unanimità obbliga talvolta ad impegnarsi su qualcosa che non si è del tutto certi di poter mantenere. Ma così è la politica. Come impressione generale, sembra confermata l’indicazione di un progressivo disimpegno, dopo l’Afghanistan, dagli interventi in aree lontane. Lento disimpegno anche degli Stati Uniti, i quali, preoccupati del futuro di Asia-Pacifico, spingono la Nato ad essere sempre più europea, prendendosi in carico il vicino Oriente ed il “Mediterraneo allargato”.
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