Sfida aperta a Netanyahu
Israele non avrà un’altra Golda Meir. Non per ora, almeno. La settimana scorsa, infatti, le primarie di Kadima – il maggiore partito politico israeliano, di orientamento centrista e tuttora all’opposizione – hanno visto una netta sconfitta di Tzipi Livni, leader del partito dal 2009. Livni è stata sonoramente battuta dallo sfidante Shaul Mofaz, riportando meno del 40% dei voti rispetto a più del 60% ottenuto dal suo avversario.
Il risultato delle primarie è interessante per due ragioni: da un lato perché conferma alcune delle tendenze in atto in Israele; dall’altro, perché potrà contribuire ad animare il dibattito sulla politica estera dello Stato ebraico più di quanto non sarebbe accaduto se avesse vinto Tizpi Livni.
Fratture profonde
Le primarie confermano la presenza di profonde fratture esistenti in Israele. La prima è quella tra il mondo ashkenazita, gli ebrei dell’Europa orientale di cui è espressione Tzipi Livni, e quello sefardita, gli ebrei dei paesi arabo-islamici da cui proviene Shaul Mofaz. La sconfitta della Livni dimostra quanto il mondo ashkenazita, che pure continua ad essere maggioritario nella cultura e nell’elite economica e finanziaria israeliana, costituisca ormai una minoranza dal punto di vista demografico e, conseguentemente, politico.
La seconda frattura è quella tra un Israele sempre più ricco – tendenzialmente laico e moderato – incarnato da Tel Aviv, e un Israele sempre più povero – in linea di massima religioso e intransigente – costituito dalle realtà più periferiche. Shaul Mofaz – che a differenza di Tzipi Livni non vive a Tel Aviv – ha vinto le primarie proprio in queste aree, facendo dell’attenzione alle questioni economiche e sociali un proprio segno distintivo.
Allo stesso tempo, la vittoria di Mofaz ribadisce il generale spostamento a destra dell’opinione pubblica israeliana. Kadima, che pure ha raccolto alle ultime elezioni i voti di una parte rilevante di elettorato moderato, deluso da un partito laburista eccessivamente schiacciato sulle posizioni del Likud, è infatti composto in prevalenza da quadri provenienti proprio dal Likud e dunque decisamente più a destra rispetto ai propri elettori. Non è una sorpresa che tra gli iscritti al partito – erano solo questi ultimi a poter votare alle primarie – Shaul Mofaz sia risultato più popolare di Tzipi Livni.
Nuovo Rabin?
Sarebbe, tuttavia, riduttivo ritenere che l’elezione di Mofaz comporti un rafforzamento dell’esecutivo di Netanyahu e della sua politica. Al contrario, il cambiamento al vertice di Kadima potrebbe riservare delle novità, in particolare per quanto concerne due questioni cruciali della politica estera israeliana.
La prima riguarda il processo di pace con i palestinesi. Mofaz ha il “curriculum” giusto per far comprendere all’opinione pubblica israeliana la necessità di compiere una serie di rinunce per giungere ad un accordo di pace con i palestinesi. È stato, infatti, capo di stato maggiore tra il 1998 e il 2002, e ha dunque guidato le forze armate israeliane nel marzo-aprile 2002, durante l’operazione “Scudo difensivo”. Nonostante le critiche che scatenò all’estero, la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana appoggiò l’operazione e Mofaz gode tuttora di una buona reputazione per quanto fatto allora.
Solo gli ex-militari in Israele – e Yitzhak Rabin lo dimostra – sembrano in grado di convincere la popolazione israeliana che la reale sicurezza viene dalle scelte politiche e non dalle azioni militari.
Siamo in presenza di un nuovo Rabin? In fondo, anche questi aveva usato il pugno di ferro durante la prima Intifada, per poi aprire all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) quando giunse al governo. Probabilmente no. Tuttavia, esiste un precedente che può lasciar ben sperare. Nel 2009, Mofaz presentò un proprio piano di pace, che – pur lontano dalle richieste minime palestinesi – prevedeva un elemento di novità assolutamente positivo: la creazione immediata di uno Stato palestinese con frontiere temporanee sul 60% della Cisgiordania e la contemporanea apertura di negoziati sui temi più complessi, dalle frontiere permanenti, agli insediamenti, a Gerusalemme.
Rispetto all’inattività del governo Netanyahu – così come della stessa Tzipi Livni, che in questi tre anni non ha fatto nulla se non criticare il governo per l’incapacità di far ripartire il negoziato – la semplice riproposizione di tale proposta da parte di Mofaz rappresenterebbe un passo avanti, perché costringerebbe il governo a prendere posizione in materia, dopo uno stallo assoluto che dura da più di due anni.
Contro l’attacco all’Iran
La seconda questione concerne l’argomento attualmente più dibattuto, tanto a livello governativo, quanto di opinione pubblica, ovvero il possibile attacco armato contro l’Iran. Le relazioni tra Mofaz e Netanyahu sono certamente migliori di quelle che intercorrevano tra il primo ministro e Tzipi Livni. In linea teorica, perciò, se ci fosse bisogno di un governo di unità nazionale – come sempre avviene in Israele nei momenti di maggiore tensione e come dunque potrebbe accadere in caso di un attacco all’Iran – Mofaz sarebbe decisamente più disponibile a guidare l’ingresso di Kadima nell’esecutivo di quanto non lo sarebbe stato Tzipi Livni.
La realtà, tuttavia, è ben diversa. Mofaz, come altri ex capi di stato maggiore, si è dichiarato contrario a un’operazione militare contro Teheran. In questo, la sua posizione non è dissimile da Tzipi Livni. Tuttavia, la sua parola ha un peso decisamente maggiore, in virtù del già menzionato background militare. La sua elezione alla guida di Kadima rappresenta pertanto un ulteriore rafforzamento del vasto fronte che si oppone ad un attacco militare e che raccoglie consensi soprattutto negli ambienti militari.
La conseguenza principale che è lecito attendersi dalla vittoria di Mofaz è una rivitalizzazione di Kadima, che negli ultimi mesi ha sofferto dell’apatia che ha caratterizzato l’operato di Tizpi Livni. Mofaz ha lanciato la sfida contro il governo Netanyahu sul terreno delle questioni economico-sociali che furono al centro delle rivendicazioni della piazza israeliana della scorsa estate.
I prossimi mesi ci diranno se la sfida riguarderà anche il più delicato terreno della politica estera. Alcune premesse positive, per quanto esigue, esistono. Nel pessimismo assoluto che riguarda il processo di pace israelo-palestinese, anche segnali minori possono essere motivo di ottimismo.
.