IAI
Attacco all’Iran

Spie e militari israeliani contro Netanyahu

22 Mar 2012 - Maria Grazia Enardu - Maria Grazia Enardu

Il viaggio del primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu negli Stati Uniti, a inizio marzo, l’incontro con il presidente Obama, i discorsi dei due alla lobby filo-Israele Aipac, hanno avuto come argomento principale, se non addirittura unico, la ferma volontà di Israele di fermare il progetto nucleare dell’Iran, anche con attacco preventivo. Il presidente Obama si è opposto all’attacco perché ritiene che l’arma delle sanzioni, dure e continue, sia vincente e senza i colossali rischi di un’operazione militare.

Opposizione interna
Ma Netanyahu è andato a Washington lasciando a casa un forte fronte contrario all’attacco all’Iran, composto da spie e militari di altissimo livello. L’ultimo della serie è Amir Eshel, dal 2008 capo del direttorato di pianificazione militare e nominato in febbraio capo dell’aviazione.

La nomina di Eshel è stata salutata da un editoriale del quotidiano israeliano Haaretz, come “una vittoria del buon senso’ e del capo di stato maggiore, Benny Gantz, e quindi una sconfitta di Netanyahu e del ministro della Difesa Ehud Barak, “una coppia che sembra intrisa di spirito bellicoso, dal grilletto facile con l’Iran“.

Eshel è stimato come uomo di straordinaria integrità, capace di parlare al primo ministro senza alcun timore reverenziale. L’editoriale si fa portavoce dei disagi e paure di una notevole parte di Israele che non sa come esprimersi efficacemente, e che trova in Eshel una sorta di garante. Insomma, un governo libero di parlare e straparlare, compreso il ministro degli esteri Avigdor Lieberman, ma sotto tutela dei militari e, soprattutto, dell’unica arma che può compiere l’impresa contro l’Iran.

Sulla questione Iran si è formato da tempo un ampio e autorevolissimo settore di opposizione a Netanyahu. Da tempo si sa che Benny Gantz, capo di stato maggiore dal febbraio 2011, e il suo predecessore Gabi Ashkenazi (2007-11), sono sempre stati contrari all’attacco.

Ma la voce che più ha risuonato è quella di Meir Dagan, capo del Mossad dal 2002 a tutto il 2010, quando non venne riconfermato da Netanyahu. Ha più volte detto che la guerra all’Iran era l’idea “più stupida” che avesse mai sentito. E che, in passato, erano stati i servizi segreti e Ashkenazi a bloccare Netanyahu.

Braccio di ferro
In verità, Dagan è solo il più roboante tra coloro che hanno espresso, di solito da pensionati, critiche durissime ai governi degli ultimi anni. Critiche che fino a un paio di anni fa erano soprattutto contro la mancanza di un vero negoziato di pace con i palestinesi, e che ora si concentrano sulla questione Iran.

La lista degli ex capi del Mossad e dei vertici militari contrari all’orientamento del governo Netanyahu comprende quasi tutti quelli degli ultimi quindici anni, con l’eccezione di Moshe Ya’alon (capo stato maggiore 2002-5, attuale ministro per le operazioni strategiche). Soprattutto comprende Tamir Pardo, che guida il Mossad oggi: appena nominato disse, a porte chiuse con gli ambasciatori di Israele, che l’Iran è sì una minaccia, ma non una minaccia esistenziale per Israele, e che questa espressione è usata con troppa facilità. Lo stesso concetto è stato ribadito da Dan Halutz (capo stato maggiore, 2005-7), e da Shaul Mofaz (idem, 1998-2).

D’accordo con Dagan, sono intervenuti altri due capi del Mossad, Danny Yatom (1996-98) e soprattutto Ephraim Halevy (1998-2002), che considera l’operazione capace di destabilizzare la regione per cento anni.

Nel confronto con gli americani Israele vuole dunque essere fermato, il che equivale a estrarre un prezzo, politico e militare, per ulteriori appoggi. Anche perché, se in versione Stranamore l’attacco partisse, ci sono seri dubbi sulla sua riuscita. Molti impianti iraniani potrebbero continuare a operare e Israele non avrebbe la capacità di colpire efficacemente gli obiettivi individuati; potrebbe perdere molti aerei e cacciarsi in una situazione tale da dover essere salvato dagli americani. Che poi dovrebbero anche reintegrare aerei persi e armi usate.

Bluff
C’è inoltre l’incognita del fattore umano. Le guerre di Israele vedono l’impiego di riservisti, anche per l’aviazione. In un’impresa che dovrebbe mobilitare centinaia di aerei di ogni tipo, dovrebbero essere richiamati piloti e navigatori che non sono operativi da anni, e forse l’annuale richiamo di addestramento non basta per questo.

Poi, come ha ricordato Amnon Lipkin-Shahak (capo stato maggiore 1995-98), nessuno prende in seria considerazione “il giorno dopo”, la reazione dell’Iran, e non sempre i servizi segreti forniscono informazioni precise sugli obiettivi.

Insomma, la nostalgia dell’attacco al sito nucleare iracheno di Osirak nel 1981, rievocata anche da Amos Yadlin, che partecipò al bombardamento e poi divenne capo dei servizi segreti militari (Aman, 2006-10), va archiviata. È lo stesso Yadlin che argomenta l’uso politico dell’attacco, per premere sugli Stati Uniti, piuttosto che un’azione in solitaria.

Una attacco che può divenire una guerra e coinvolgere l’intero paese. Il quale, però, sembra in maggioranza contrario.

Alcuni recentissimi sondaggi evidenziano che tra il 19 e il 26 per cento degli israeliani è favorevole all’operazione, anche da soli. Gli altri sono contrari o al massimo (dal 34 al 58 per cento) favorevoli solo se c’è il sostegno americano. Inoltre, con le classiche contraddizioni dei sondaggi israeliani, la metà si fida di Netanyahu e Barak in tema di Iran, e solo il 38% ammette totale sfiducia. Sempre secondo i sondaggi, ne lle elezioni che si terranno in Israele entro un anno, il Likud di Netanyahu stravincerebbe.

Possibile traduzione di questi dati: gli israeliani, nel senso di opinione pubblica e anche di governo, vogliono bluffare, fare la voce grossa, rinsaldare i legami con gli Stati Uniti e ottenerne maggiori aiuti, ma fermandosi un passo prima dell’abisso. Gli americani ovviamente vedono il gioco, ma il presidente Obama ha poco spazio di manovra, anche perché pressato dalle urgenze della campagna elettorale.

Come ha scritto David Grossman, il rischio è troppo alto, occorre opporsi alla retorica di Netanyahu e domare le paure di Israele.

Al di là delle polemiche, quello che emerge è il profondo contrasto tra il governo e gran parte degli alti comandi militari e dell’intelligence, una spaccatura in aggiunta alle altre di Israele. La questione Iran maschera la frattura di base, su come affrontare un serio negoziato di pace con i palestinesi, che finirebbe per toccare questioni esistenziali, sulla natura di Israele e del sionismo. Temi che questo governo, e il paese tutto, non sembrano però in grado di affrontare.

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