Israele nella Primavera araba
L’incontro del 5 marzo a Washington fra il presidente Usa Barack Obama e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è incentrato sull’ormai famigerata ipotesi dell’attacco israeliano all’Iran. L’ipotesi dell’attacco è configurata dal governo israeliano come se fosse avulsa dal contesto della cosiddetta Primavera araba. Dalle dichiarazioni dei due leader in occasione dell’incontro emerge, in effetti, che mentre Obama ha ben presente questo contesto, Netanyahu sembra non tenerlo affatto presente. Il rapporto fra Israele e la Primavera araba investe invece non solo Israele, ma anche gli interessi dell’Occidente.
Fulcro strategico
Con il Trattato di Camp David del 1979, il quadro strategico della sicurezza di Israele ha iniziato a cambiare: la percezione di una minaccia esistenziale allo stato israeliano si è gradualmente spostata dal fronte israelo-arabo a quello guidato dall’Iran. Mentre Fatah e i paesi arabi moderati diventavano interlocutori di un processo politico che non si è poi realizzato, Teheran, il Partito di Dio in Libano, la Siria e Hamas hanno preso a proprio carico la lotta per l’eliminazione dello stato israeliano. L’ “asse della resistenza” ha aggiunto al conflitto asimmetrico un notevole sforzo di riarmo, che oggi si rispecchia nelle non trascurabili capacità missilistiche acquisite dai suoi componenti.
Lo sviluppo delle capacità industriali, e forse militari, dell’Iran nel campo nucleare ha infine coronato questa tendenza, diventando, grazie alle esternazioni di Ahmadinedjad sull’Olocausto, il cuore di una nuova minaccia esistenziale. Perciò, il quadro strategico israeliano ha oggi il suo fuoco fuori dal mondo arabo, sull’altra sponda del Golfo, lontano dal Nord Africa e soprattutto dal Levante, che invece lo fu almeno fino alla seconda “intifada” palestinese iniziata nel 2000.
Se questo è il contesto storico e strategico della sicurezza nazionale di Israele, quale è il senso della Primavera araba e dei suoi drammatici sviluppi per questo paese? Ad un primo sguardo Israele sembra come isolato e lontano da questi sviluppi. L’atteggiamento e le dichiarazioni dei membri del suo governo tendono a minimizzare o banalizzare i cambiamenti nel mondo arabo, ribadendo quasi ossessivamente la minaccia che sentono provenire dall’Iran. Questo è naturalmente in sintonia con lo spostamento del quadro strategico di cui abbiamo appena detto: la Primavera araba riguarda il vecchio quadro della sicurezza nazionale israeliana, che oggi sta invece sull’altopiano iranico.
Pace più fredda
Ma si tratta di una prospettiva illusoria, perché gli avvenimenti che oggi ci appaiono come “arabi” sono in realtà pienamente ”mediorientali” e destinati a produrre i loro effetti ultimi non solo sulle sponde del Mediterraneo, ma anche su quelle del Golfo e, naturalmente, anche oltre. In realtà, la Primavera araba tocca Israele e la sua sicurezza assai da vicino. Essa influisce sulla sicurezza israeliana sia direttamente sia perché ha un impatto sulle sue alleanze internazionali, a cominciare dagli Usa, che è destinato a riflettersi sullo stesso Israele.
Il cambiamento nel mondo arabo si sta realizzando attraverso l’ascesa al potere di partiti di ispirazione religiosa, basati sull’identità sunnita e araba delle masse che rappresentano. Questo cambiamento riguarderà sicuramente la politica estera e si tradurrà, fra l’altro, in una revisione dei rapporti con Israele, specialmente da parte dei paesi che più direttamente furono impegnati nel processo di pace, come l’Egitto e, assai probabilmente, la Giordania (che potrebbe arrivarci dopo qualche traumatico mutamento interno).
A questa revisione non mancheranno di allinearsi paesi più distanti dal fronte, ma nel frattempo passati all’Islamismo, come la Tunisia. Se in Siria il dispotismo degli Assad dovesse essere abbattuto, il nuovo regime, nazionalista o islamista che sia, si porrà comunque su analoghe posizioni revisioniste. Lo stesso faranno i paesi arabi del Golfo, continuando a prendere la questione palestinese come un’occasione di leadership regionale.
Allo stato, la revisione che sembra configurarsi non è però basata sulla volontà di rivedere i trattati in essere. Si andrebbe verso il mantenimento della pace attuale, anche se più fredda di quella del passato.
Variabile Obama
Senza dubbio, questo scenario sarà molto fragile e non potrà che creare ansie e problemi. In questo scenario la diplomazia americana, nel sia pur vago quadro della politica del presidente Obama, sta proprio cercando di dare forma a un rapporto cooperativo nuovo e diverso fra gli Stati Uniti e i regimi arabi nascenti. La politica di Obama cerca di andare incontro alla moderazione islamista e rafforzarla.
Se Obama non verrà rieletto e al suo posto andrà un estremista repubblicano, il problema non si porrà nemmeno. Ma se verrà rieletto e continuerà nella sua politica di avvicinamento agli islamisti, verrà il momento in cui la realizzazione di questa politica avrà bisogno di un’apertura da parte di Israele, altrimenti potrebbero anche essere rimessi in questione i Trattati.
A quel punto, Obama dovrà fare ben attenzione a compiere passi credibili, per non ripetere l’errore che fece all’inizio del suo mandato, quando chiese lo smantellamento delle colonie e poi, reputandolo insostenibile, lo ritirò. Se non farà nuovi errori, Israele dovrà scegliere fra la collaborazione con il suo maggiore alleato o l’isolamento. Scegliendo di collaborare, Israele entrerebbe così, anch’esso e positivamente, nel contesto che oggi rifiuta della Primavera araba, cioè nel nuovo contesto regionale.
Ma Obama potrebbe compiere nuovi errori e non è da escludere che Israele, per parte sua, persista nella sua percezione. Potrebbe addirittura decidere di prevenire il rischio di una rielezione di Obama e attaccare prima delle elezioni di novembre.
Riallineamento regionale
Anche al di là delle circostanze attuali, non è comunque chiaro quali risultati strategici gli israeliani si ripromettono di ottenere con questo possibile attacco. Potrebbe essere un bluff: in fondo, mentre i due precedenti attacchi all’Iraq e alla Siria sono avvenuti regolarmente a sorpresa, lo strombazzamento che accompagna quello all’Iran fa effettivamente pensare più alla ricerca di un effetto di annuncio che all’intenzione di eseguire l’azione minacciata.
Ma se non è un bluff, tale attacco avrebbe strategicamente senso se gli israeliani lo ritenessero risolutivo: una distruzione della nascente potenza nucleare iraniana da cui Teheran non potrebbe più risollevarsi. Tuttavia, nemmeno la più ottimistica previsione israeliana arriva a tanto. Per cui, a conti fatti, si profila un’azione il cui solo risultato certo è che sarebbe politicamente distruttiva. Essa frusterebbe infatti il legittimo tentativo degli Stati Uniti e dell’Occidente (che i dirigenti di Gerusalemme vedono invece come una seconda Monaco) di trasformare la Primavera araba in un’occasione di rinnovamento e ridimensionamento dei difficili rapporti con il Medio Oriente, incluso l’Iran.
Mentre Israele trascura – si direbbe snobbi – la Primavera araba, ritenendo che la questione importante sia l’Iran, sembra non accorgersi che la Primavera araba sta indebolendo l’Iran. Il riallineamento regionale che la Primavera araba sta provocando è per l’Iran un rischio politico da cui nessun ordigno nucleare potrà salvarlo. È un’ottima occasione per costringere finalmente l’Iran a negoziare con serietà d’intenti e aprire una fase di nuovi rapporti fra Occidente e Medio Oriente in cui anche la soluzione del problema israelo-arabo sia facilitata.
Israele sembra cieco dinnanzi a tutto ciò. Questa cecità è deplorevole non solo perché ostacola i tentativi che gli Usa e l’Occidente stanno compiendo per trovare un nuovo assetto nei loro rapporti con la regione, ma anche perché, ove Israele decidesse di procedere per conto suo attaccando l’Iran, rischia solo di far piombare tutto nel caos. Sul punto, un risoluto ed inequivoco intervento, sia pure semplicemente declaratorio, dell’Europa – che non ha elezioni alle calcagna come Obama – sarebbe più che opportuno.
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