Iran: prepararsi al caso peggiore
Esistono due partiti. Il primo è quello del “can che abbaia non morde”, convinto che in realtà non avverrà alcun attacco israeliano all’Iran in questa fase, per una serie di ragioni quali tra l’altro l’opposizione americana e la buona salute politica del governo Nethanyau nei sondaggi. Il secondo è quello del “tanto tuonò che piovve”, che sostiene invece che l’attacco avrà luogo, con o senza l’assenso americano, probabilmente durante la campagna elettorale presidenziale negli Usa e malgrado gli evidenti gravi danni che una simile decisione potrà provocare agli interessi occidentali in Medio Oriente.
Chiunque abbia ragione, se infine arriverà, non sarà certo una sorpresa, ma in realtà nessuno ancora è in grado di dire se, quando e come Israele, e forse gli Stati Uniti, attaccherà (o attaccheranno) l’Iran. Tuttavia, se l’attacco avesse luogo, una cosa è certa: l’Europa si troverebbe in grosse difficoltà. È quindi il caso di cominciare a discutere delle scelte e delle azioni possibili, prima e dopo una simile eventualità.
Modalità e obiettivi
L’intervento militare contro l’Iran aggiungerebbe nuove difficoltà ad una situazione già complessa. Gli equilibri politici interni di molti paesi della regione sono instabili, basti pensare al Pakistan, ma anche all’Iraq, alla Siria, al Libano, all’Egitto o allo Yemen. Anche paesi apparentemente più tranquilli, come l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo dovrebbero prendere decisioni difficili. Molti sarebbero accusati di “complicità”, vera o presunta che essa sia.
Alcuni scenari sono particolarmente preoccupanti, come quello che prevede un possibile appoggio logistico dei kurdi iracheni all’aeronautica israeliana. L’eventuale coinvolgimento, diretto o indiretto, delle forze americane basate nel Golfo, chiamerebbe direttamente in causa i governi dei paesi ospitanti.
Le modalità e gli obiettivi di un attacco possono essere molto diversi, e comportare diverse conseguenze. In sintesi, si possono immaginare quattro diversi tipi di intervento (escludendo l’uso di forze terrestri): (a) contro alcuni siti nucleari iraniani, (b) contro tutti i siti iraniani noti, (c) con in più la distruzione di importanti capacità militari iraniane, (d) con un numero significativo di “danni collaterali” (e vittime civili).
La prima ipotesi sarebbe forse quella più facile da gestire sul piano dell’opinione pubblica, e l’ultima la più difficile. Se l’obiettivo è quello di mettere fine al processo di riarmo nucleare dell’Iran, tuttavia, il primo tipo di attacco dovrebbe probabilmente essere ripetuto periodicamente, mentre gli altri, essendo più distruttivi, potrebbero avere effetti di molto più lunga durata, anche se sarebbero più difficili da giustificare politicamente. Probabilmente l’aeronautica israeliana è in grado di condurre da sola il primo tipo di attacco, mentre gli altri richiederebbero un sostanziale appoggio americano.
La partecipazione diretta o indiretta degli Stati Uniti potrebbe essere essenziale per la piena riuscita dell’attacco, ma dovremo comunque aspettarci che, anche in caso di un’azione isolata degli israeliani, gran parte dei media e dell’opinione pubblica musulmana accuserà ugualmente gli americani di averla consentita e appoggiata. Per quanto non vi sia buon sangue tra i musulmani sunniti e quelli sciiti, la reazione popolare, in paesi chiave come l’Egitto, l’Arabia Saudita o anche il Pakistan e la Turchia, sarebbe certamente molto negativa, per non parlare dell’Iraq, a maggioranza sciita, e delle minoranze di questa denominazione in tutto il mondo islamico. La Fratellanza musulmana, spinta al potere dalle rivolte in corso nel mondo arabo, già fortemente anti-israeliana, non potrebbe certo far finta di nulla.
Incendio regionale
Malgrado sia evidente l’interesse di molti paesi della regione a diminuire il peso politico e militare dell’Iran, la dinamica politica interna li spingerebbe nell’opposta direzione, almeno in un primo periodo. Se poi l’attacco riuscisse solo a ferire l’Iran, in modo non troppo significativo, a queste esigenze di politica interna si aggiungerebbe il giustificato timore di un’accresciuta azione propagandistica dell’Iran che, questa volta, troverebbe un terreno molto favorevole.
Molte crisi potrebbero aggravarsi, a cominciare da quella in Afghanistan, malgrado i conflitti religiosi e politici che dividono l’Iran dai talebani. Potrebbero divenire ancora più fragili i rapporti con il Pakistan, indebolendo il governo Karzai e rendendo difficilissima la permanenza delle truppe della Nato, malgrado l’importanza degli aiuti militari americani ad Islamabad: come minimo crescerebbe l’ambiguità dei comportamenti delle autorità pakistane.
Ma si complicherebbe anche la situazione in Iraq, spingendo il governo di Bagdad ad appiattirsi sulle posizioni iraniane (se poi i kurdi avessero appoggiato gli israeliani, diverrebbe altissimo il rischio di guerra civile e molto probabile una scissione del Kurdistan dall’Iraq, con altre conseguenze difficili in Turchia e Siria). La stessa Turchia, oltre ad accrescere ancora la sua distanza da Israele, forse sino alla rottura definitiva delle relazioni diplomatiche, potrebbe scoprirsi in polemica con gli Stati Uniti, creando ulteriori gravi problemi all’Alleanza Atlantica.
Nel complesso, l’Europa si troverebbe di fronte ad una regione mediterranea e mediorientale in pieno subbuglio e il delicato tentativo di favorire lo stabilirsi di nuovi governi moderati nella regione e di riprendere un dialogo anche con la parte più moderna ed avanzata dei movimenti islamici diverrebbe difficilissimo, forse impossibile. Anche senza prendere in conto gli eventuali effetti di un simile conflitto sui prezzi del petrolio e del gas, e sulla sicurezza degli approvvigionamenti energetici, dunque, l’Europa sarebbe in grave difficoltà.
Equilibrismi e cacofonie
In una tale situazione, cosa sarebbe opportuno e possibile fare?
Le esigenze sono molteplici: evitare uno scontro politico con gli Usa, rimediare ai danni della Nato, recuperare e consolidare i paesi arabi moderati, riprendere il dialogo con i partiti islamici al potere, trovare una intesa con la Turchia, mantenere fermo il principio del diritto di Israele ad una esistenza sicura e riconosciuta da tutti, sono alcune di esse.
Ma il margine d’azione non è ampio, perché queste esigenze possono facilmente entrare in contrasto tra loro. Tra l’altro bisognerebbe anche evitare una spaccatura tra i paesi europei, che finisca per paralizzare l’Ue e per rendere molto più difficile la situazione. Specie se Israele decidesse di agire da solo, contro l’avviso americano, le reazioni di alcuni (Francia, Gran Bretagna) potrebbero essere più dure di quelle di altri (Germania, forse Italia), accrescendo la cacofonia e ritardando le necessarie decisioni.
Alcune reazioni “formali” potrebbero essere più semplici: note comuni di protesta, forse anche un richiamo temporaneo degli ambasciatori “per consultazioni”, ma resterebbero al di sotto del livello di iniziativa necessario per influire significativamente sulle opinioni pubbliche della regione. Un passo più difficile, ma anche più significativo, potrebbe essere il riconoscimento ufficiale dello stato palestinese, che avrebbe certamente una grande eco politica in tutto il Medioriente, a condizione però di essere condiviso dall’insieme dei paesi europei, o quanto meno da una larga e significativa maggioranza di essi.
Il problema sarebbe quello di come trovare un equilibrio tra una maggiore apertura nei confronti degli arabi, il riconoscimento dei diritti fondamentali di Israele e la spinta massimalistica che certamente si manifesterebbe all’interno del partiti islamici. Già oggi, gli sviluppi politici in Egitto, la guerra di Libia e le rivolte e la repressione in Siria stanno spingendo i paesi occidentali ad appoggiare (sia pure malvolentieri) le rivendicazioni dei Fratelli musulmani, finanziati ed appoggiati dalle monarchie del Golfo. Ma molto rapidamente un tale appoggio potrà entrare in contraddizione con le altre esigenze degli occidentali (dalla difesa di Israele al desiderio di appoggiare la modernizzazione e l’evoluzione democratica degli stati medio orientali).
Interesse Ue
Una possibile vittima di questa situazione potrebbe essere il delicato equilibrio interno, politico e costituzionale, della Turchia, allontanandola ancora di più dall’Europa, e forse anche dagli Stati Uniti. In caso di attacco, dunque, sarebbe interesse strategico dell’Europa iniziare immediatamente una significativa apertura nei confronti di Ankara, superando gli ostacoli che si frappongono ad una sua integrazione nell’Ue. Un discorso analogo dovrebbe essere condotto nei confronti della Russia, sia per ragioni di sicurezza energetica sia per allontanare l’ipotesi di un suo radicamento antagonista in Medio Oriente.
Infine, una iniziativa politica di grande respiro dovrebbe essere concepita anche nei confronti dell’Africa, e in particolare dell’Unione africana, già contraria all’intervento contro la Libia e alle prese con forti movimenti estremisti islamici, dal Corno d’Africa alla Nigeria. Anche in questo caso bisognerà tentare di riaffermare l’immagine dell’Europa come partner più che come avversario, dimostrando la necessaria apertura negoziale in campo commerciale, riprendendo il flusso degli aiuti economici e appoggiando in modo più efficace le operazioni di stabilizzazione e di lotta all’anarchia, al terrorismo e alla criminalità.
Nel complesso non è uno scenario facile, e sono molti a dubitare delle reali capacità europee di gestirlo unitariamente. Per questo sarebbe opportuno iniziare subito una serie di consultazioni tra i governi europei e le istituzioni di Bruxelles, per anticipare per quanto possibile la crisi e per cercare di evitarla, riprendendo una più forte iniziativa politica regionale, magari con una iniziativa congiunta con Ankara e Mosca, volta a scoraggiare l’opzione militare e ad esercitare nuove pressioni sull’Iran (e su Israele). In tal modo si preparerebbe anche il terreno per una eventuale successiva operazione di limitazione del danno.
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