Condanna senza appello per i ‘respingimenti’
La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 23 febbraio 2012 (Hirsi e altri c. Italia), è non solo una condanna della “politica dei respingimenti” messa in atto dal nostro paese nei confronti di cittadini stranieri refoulés verso la Libia. È anche un avvertimento a conformarsi ai principi contenuti nella sentenza, resa in Grande Chambre, e quindi definitiva, qualora si dovessero presentare nel futuro casi simili, di migranti o richiedenti asilo intercettati in mare da parte di autorità italiane.
Prevenzione
La violazione di diritti fondamentali nella fattispecie impegna il governo italiano, infatti, sia a verificare che le autorità del paese, verso cui gli stranieri sono stati respinti (nella specie, Libia), li trattino in modo conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu, art. 3 in particolare) e non li rimpatrino nei paesi di origine (nella specie, Eritrea e Somalia), sia a fare tutto il possibile per prevenire il verificarsi di situazioni simili in avvenire.
Le misure individuali, insomma (compreso il pagamento del danno subito, nella specie quantificato in quindicimila euro a favore di ciascuno dei ricorrenti), non sono sufficienti, poiché lo Stato deve adottare (in conformità all’art. 46 Cedu) misure di carattere generale, quindi anche di carattere legislativo.
I fatti, in breve, sono i seguenti. In attuazione della propria strategia di controllo dell’immigrazione irregolare via mare, incentrata principalmente sulla collaborazione bilaterale con i paesi di origine e di transito dei migranti, a seguito dell’entrata in vigore del trattato italo-libico di partenariato, amicizia e cooperazione con la Libia (dell’agosto 2008), nell’estate 2009 oltre 800 persone venivano intercettate dalle autorità navali italiane a bordo di imbarcazioni partite dalle coste libiche nel tentativo di raggiungere il nostro paese, e venivano quindi rinviate verso la Libia.
Le critiche e censure, fondate sulla violazione dei diritti fondamentali dei migranti, che venivano respinti verso luoghi in cui sarebbero stati possibili vittime di trattamenti inumani e degradanti, con il rischio di rimpatrio nei paese dai quali fuggivano, furono molte, e ripetute. Esse emergono anche nella sentenza della Corte europea, grazie all’ammissione, quali terzi intervenienti, di Ong nonché dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Posizioni critiche furono espresse da varie figure e istituzioni europee.
Gravi violazioni
Il ricorso che ha dato origine alla controversia era stato promosso da undici cittadini etiopi e tredici somali, parte di un gruppo di circa duecento persone partite nel maggio 2009 dalla Libia a bordo di tre imbarcazioni ed intercettate da navi della Guardia di finanza e della Guardia costiera italiana a trentacinque miglia nautiche a sud di Lampedusa (in zona di ricerca e salvataggio, invero, di competenza maltese, non già italiana, ma le autorità maltesi, dopo averne discusso con quelle italiane, si rifiutarono di intervenire).
Gli occupanti furono trasferiti sulle navi militari italiane e riportati a Tripoli. I ricorrenti sostenevano che, durante quel viaggio, le autorità italiane non avevano fornito informazioni in merito alla loro destinazione reale e non avevano intrapreso iniziative per identificarli, peraltro confiscando tutti i loro effetti personali, compresi i documenti attestanti la loro identità. All’arrivo nel porto di Tripoli, i migranti furono consegnati alle autorità libiche, nonostante la loro opposizione. Circostanze, queste, interamente confermate nel corso nel giudizio.
Le violazioni contestate al nostro paese da parte dei ricorrenti erano varie: la violazione dell’articolo 3 della Cedu (divieto di trattamenti inumani e degradanti); dell’art. 4 del Protocollo n. 4 (divieto di espulsioni collettive); dell’art. 13 Cedu, da solo e in connessione con l’art. 3 e con l’art. 4 Protocollo n. 4, essendo mancato un rimedio adeguato, che avrebbe permesso un esame dei reclami dei migranti.
La Corte ha ritenuto sussistenti tutte le violazioni, affermando principi che contribuiscono a rafforzare le tendenze evolutive della giurisprudenza della Corte su alcuni profili di importanza cruciale, quali i limiti al potere dello Stato di respingere ed espellere gli stranieri che tentano di fare ingresso sul loro territorio in maniera irregolare. Limiti determinati da esigenze di tutela dei diritti fondamentali, qualificate come assolute, inderogabili.
Richiamata la propria giurisprudenza del passato, la Corte ha applicato per la prima volta l’art. 4 del Protocollo n. 4 al caso di stranieri che non si trovavano sul territorio nazionale, bensì in alto mare, ricorrendo a un’interpretazione teleologica e funzionale della Cedu, conforme alla propria giurisprudenza (ma anche alla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati), che si fonda sul significato ampio di giurisdizione esercitata dallo Stato ai sensi dell’art. 1 della Cedu. Lo Stato esercita, disponendo il refoulement degli stranieri, un potere pubblico e sovrano e quindi esercita la propria giurisdizione sulle persone, impedendo loro di sbarcare sulle coste nazionali, con conseguente assunzione di responsabilità per le misure adottate.
Oltre l’ambiguità
A fronte di una condanna, come si è detto, senza appello (malgrado qualche esponente politico nazionale abbia affermato il contrario), vi è da chiedersi quale sarà la linea di condotta futura del governo italiano. Di adeguamento, come è doveroso e auspicabile, e quindi di segno diverso rispetto alla “rivendicazione”, del ministro dell’interno dell’epoca, non solo di aver ben operato, ma di essere pronto (se fosse ancora in carica) a reiterare tale comportamento, Cedu e Corte europea … tamquam non essent.
Altro profilo, di più vasta portata riguardando le relazioni politiche fra il nostro paese e il nuovo governo libico, è la “riattivazione” degli accordi già ricordati fra i due paesi, con nuovo esame o riesame delle questioni relative all’immigrazione nonché ai rifugiati (la Libia,come si è ricordato, non è parte contraente della Convenzione di Ginevra). Forse anche la sentenza Hirsi contribuirà a far “uscire dall’ambiguità” (come è stato ben osservato da N. Ronzitti su questa rivista) i rapporti bilaterali italo-libici.
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