IAI
Proliferazione nucleare

Venti di guerra in Iran

10 Gen 2012 - Andrea Dessì - Andrea Dessì

Time to attack Iran” è il titolo di un recente articolo apparso sull’importante rivista americana Foreign Affairs. Pubblicato da Matthew Kroenig, ex-consigliere speciale per il Medio Oriente del dipartimento della difesa Usa, l’articolo è solo uno dei molti esempi che fanno pensare che il 2012 sarà un anno decisivo per il regime di Teheran. Se lo scoppio della cosiddetta “Primavera araba” aveva momentaneamente fatto passare in secondo piano le tensioni sul programma nucleare iraniano, gli sviluppi degli ultimi mesi ricordano che un conflitto nel Golfo è ancora uno degli scenari possibili.

I prossimi nove mesi saranno infatti cruciali per il dossier nucleare iraniano. Una volta superata quella soglia, le probabilità di successo di un attacco preventivo alle centrali nucleari iraniane diminuiranno considerevolmente. L’Iran ha infatti iniziato a dislocare molto del suo know how nucleare in diverse basi militari sotterranee, costruite per resistere a un attacco aereo. Lo scorso novembre il ministro della difesa israeliano, Ehud Barak, ha affermato che nel giro di un anno il cammino iraniano verso l’arma atomica diventerà “inarrestabile”.

Tensioni nel Golfo
Mentre a Bruxelles ci si prepara all’approvazione di un embargo petrolifero dell’Ue nei confronti di Teheran, nel Golfo Persico si è svolto un vero e proprio braccio di ferro tra Iran e Stati Uniti. Dopo la pubblicazione del rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) dello scorso novembre, secondo cui l’Iran ha intrapreso diversi test necessari alla realizzazione di un’arma atomica, le pressioni internazionali si sono moltiplicate.

Canada, Stati Uniti e Regno Unito hanno annunciato nuove sanzioni economiche contro Teheran, compromettendo ulteriormente i già lacunosi rapporti diplomatici del paese con diversi paesi europei. Quando il 29 novembre gruppi di studenti pro-regime hanno attaccato l’ambasciata britannica a Teheran, la condanna a livello internazionale è stata unanime. Il Regno Unito ha in seguito declassato i rapporti diplomatici con l’Iran, mentre molti partner europei, tra cui Francia, Germania e Italia, hanno richiamato i propri ambasciatori da Teheran per consultazioni.

Un embargo petrolifero dell’Ue nei confronti dell’Iran è dunque il molto probabile prossimo passo nella lunga serie di sanzioni economiche e politiche imposte al regime iraniano. I vertici militari di Teheran hanno reagito minacciando di chiudere lo stretto di Hormuz, importantissima arteria marittima situata tra Iran, Emirati Arabi e Oman, attraverso la quale transita circa un quinto del greggio mondiale.

Proprio nei pressi dello stretto la marina iraniana ha di recente concluso una serie di esercitazioni militari terminate con il test di due nuovi missili a media gittata in grado di colpire le basi Usa lungo le coste occidentali del Golfo Persico. L’amministrazione americana , che dispone di una vasta base navale nel Golfo Persico, ha avvertito che non accetterà alcuna interruzione della viabilità nello stretto.

Iran alle corde
Questa escalation nel Golfo confermerebbe dunque che l’Iran sta iniziando ad accusare gli effetti delle sanzioni e cercando di evitare un embargo petrolifero da parte dell’Ue. Il 31 dicembre, infatti, Saeed Jalili, capo negoziatore iraniano sulla questione nucleare, ha formalmente richiesto un incontro di mediazione con il gruppo dei P-5+1 (composto da Stati Uniti, Cina, Russia, Regno Unito, Francia e Germania) per favorire un nuovo round di negoziati sul dossier nucleare.

Questa richiesta, che se accolta scongelerebbe i rapporti dopo un anno, è stata avanzata il giorno stesso in cui una serie di durissime sanzioni economiche nei confronti del settore finanziario e della banca centrale iraniana sono state approvate dagli Usa. Queste mirano a colpire il settore petrolifero iraniano imponendo sanzioni su qualsiasi compagnia che intrattenga rapporti commerciali con la banca centrale iraniana, la quale gestisce tutte le transazioni economiche legate all’export di greggio (l’America non compra greggio dall’Iran dal 1987).

Non è un caso che il valore della moneta iraniana, il rial, sia crollato del 12% rispetto al dollaro Usa fino ad arrivare ai minimi storici durante i primi giorni del 2012. Un eventuale embargo petrolifero Ue aggraverebbe ulteriormente questa situazione, visto che in passato l’Europa importava circa un quinto delle esportazioni di greggio iraniano (il 70% delle quali erano destinate ai mercati spagnoli e italiani). Naturalmente rimarrebbero altri paesi disposti a comprare petrolio iraniano, e per questo è prevedibile un incremento delle pressioni di Usa e Ue verso Cina e Russia per inasprire le sanzioni Onu contro Teheran.

Nuovo containment
Un articolo apparso in autunno sulla rivista americana The Washington Quarterly rilancia l’ipotesi di un nuovo approccio americano nei confronti dell’Iran. Nel saggio Kenneth M. Pollack e Ray Takeyh, due analisti che già nel 2004 sono stati tra i principali sostenitori della strategia a ‘doppio binario’ intrapresa dall’attuale amministrazione Usa nei confronti del regime di Teheran, sostengono che l’unico modo per “indurre un cambiamento significativo nel comportamento della Repubblica islamica, senza il ricorso alla guerra è di mettere in pericolo la sua stessa esistenza” attraverso azioni di sabotaggio, controinformazione, pressioni economiche e politiche, e un’azione coordinata che mira a incrementare le pressioni interne al paese.

L’obiettivo è di accrescere le inclinazioni “complottistiche” degli Ayatollah per indurli a compiere azioni affrettate e potenzialmente negative. L’episodio dell’attacco all’ambasciata britannica a Teheran potrebbe rappresentare un esempio di risposta controproducente da parte del regime, sempre ammesso che sia stata ispirata da quest’ultimo.

Sebbene oggi, come in passato, i media continuino a parlare di un imminente attacco all’Iran, le probabilità che questo si verifichi sembrano abbastanza ridotte. Sia gli Stati Uniti che Israele riconoscono che un attacco potrebbe innescare un conflitto regionale di vaste proporzioni. Anche per questo la strategia del “doppio binario” può rappresentare una efficace alternativa.

Azioni di sabotaggio, condotte dal Mossad o dalla Cia, sono aumentate nel corso degli ultimi mesi, cosi come si sono accresciute le pressioni diplomatiche. Le due esplosioni che si sono verificate il 17 e il 28 novembre nella centrale nucleare di Isfahan e in una base missilistica delle Guardie rivoluzionarie iraniane, sembrano aver ulteriormente ritardato il programma nucleare, così come lo aveva fatto il virus Stuxnet introdotto nel sistema elettronico della centrale nucleare di Natanz nel giungo 2010.

A queste azioni si aggiungono una serie di omicidi mirati di scienziati coinvolti nel programma nucleare, l’ultimo dei quali risale al luglio 2011, che diverse fonti ritengono ispirati direttamente dai servizi segreti israeliani o americani. Questo tipo di operazioni potrebbe anche motivare risposte analoghe da parte dei servizi iraniani. Le recenti accuse americane di un complotto che mirava ad assassinare l’ambasciatore saudita a Washington potrebbe esserne un esempio. Interventi che mirino a indebolire l’apparato repressivo del regime, la censura d’internet, e l’utilizzo dei più vecchi metodi di coercizione diplomatica serviranno a tenere alta la pressione sul governo.

Tale strategia non può escludere la prospettiva di una escalation. Anche per questo è auspicabile che gli Stati Uniti diano vita al più largo fronte internazionale con cui fronteggiare eventuali provocazioni dell’Iran. L’atteggiamento negoziale di Stati Uniti e Unione europea dovrà comunque essere fermo, ma aperto. Un possibile riconoscimento del fatto che l’Iran, pur come membro del Trattato di non proliferazione (Tnp), possa sviluppare un programma nucleare indirizzato a scopi pacifici, probabilmente non potrà essere esclusa per sempre dal tavolo negoziale.

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