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Scenari di crisi

L’ombra dell’Iran sullo stretto di Hormuz

4 Gen 2012 - Fabio Caffio - Fabio Caffio

Ancora una volta lo Stretto di Hormuz, dopo la Guerra Iran-Iraq e dopo che più volte si sono materializzate minacce reali o potenziali al suo regime di transito, è al centro dell’attenzione internazionale. Quello che è il più importante “oil chokepoint” attraverso cui passa circa un terzo del flusso petrolifero mondiale, può infatti essere usato facilmente come strumento per condurre una guerra virtuale fatta di proclami e di scenari di crisi. Come peraltro è spesso avvenuto per altre aree marittime “calde” quali, per parlare di casi a noi più familiari, il Canale di Suez, il Golfo della Sirte, l’Egeo e gli Stretti turchi.

Lo Stretto di Hormuz

Unilateralismo
Il diritto del mare, nonostante abbia oramai raggiunto una sua stabile disciplina, può essere utilizzato per creare ad arte tensioni internazionali. Da questo punto di vista l’unilateralismo marittimo iraniano sembra essere solo di facciata anche perché gli interessi economici dell’Iran (e degli altri Stati del Golfo Persico) coincidono con quelli degli Stati importatori di greggio. Si tratta dunque di un espediente tattico, che può restare tale a meno che non accada l’imponderabile.

Nel qual caso più che la reazione di un singolo paese è più che probabile l’intervento delle Nazioni Unite perché venga ristabilita quella libertà di navigazione nello Stretto che, essendo strettamente connessa alla sicurezza energetica, è fattore cruciale della pace e della sicurezza internazionale: all’occorrenza anche la Nato, che ha già inserito nel suo Concetto Strategico del 2010 il principio della protezione della stessa sicurezza energetica, potrebbe giocare un suo ruolo.

Snodo cruciale
Lo Stretto di Hormuz, dal punto di vista geografico oltre che giuridico, è uno stretto internazionale sia perché è interamente coperto dalle acque territoriali di Iran ed Oman (21 miglia è la sua ampiezza minima tra le isole di Larak e Quain) sia perché collega aree di alto mare e di Exclusive economic zone (Eez). Le navi mercantili e da guerra godono al suo interno di libertà di transito senza preavviso a condizione di rispettare le prescrizioni stabilite dalla Convenzione del diritto del mare (Unclos) ed attenersi agli schemi di separazione del traffico approvati dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo, secondo l’acronimo inglese): due canali larghi ciascuno un miglio, ricadenti nelle acque territoriali dei due paesi, separati da una zona cuscinetto (buffer zone) di due miglia, posta a cavallo della mediana.

In vicinanza della penisola omanita di Musandam, i corridoi di entrata e di uscita sono tuttavia posti integralmente nelle acque territoriali dell’Oman poiché dal lato iraniano la presenza di isole rende i fondali non idonei alla navigazione. Oltre lo Stretto, all’interno del Golfo Persico, vi è inoltre l’Isola di Abu Musa che, pur essendo rivendicata dagli Emirati, è in possesso dell’Iran assieme ai vicini isolotti della Grande e della Piccola Tunb. In questa parte delle acque territoriali iraniane transita il traffico di cabotaggio diretto verso nord-ovest.

Il diritto
Quando si parla di stretti utilizzati dalla navigazione internazionale come quello di Hormuz, prima ancora che rifarsi al regime di “passaggio in transito” attualmente garantito dall’Unclos, bisogna ricordare il caso dello Stretto di Corfù. Nel 1946, Unità navali britanniche che navigavano nello Stretto per sminarlo ed affermare la libertà di navigazione dopo essere state cannoneggiate dalla costa albanese, incapparono in mine vaganti: 44 marinai perirono.

Successivamente la Corte internazionale di giustizia esaminò il caso su richiesta del Consiglio di sicurezza, affermando sia l’obbligo per l’Albania di risarcire la Gran Bretagna per il mancato preavviso dell’esistenza di campi minati, sia la sussistenza per tutti gli Stati del diritto al passaggio non sospendibile negli stretti internazionali. Lo stato dell’arte di questo regime di passaggio – reso ancor più garantito dall’Unclos – è sostanzialmente ancora identico, nonostante la pretesa iraniana di limitarne la portata ai soli stati che hanno ratificato l’Unclos (tra i quali non vi sono, com’è noto, né gli Stati Uniti né Israele).

Un’iniziativa unilaterale di blocco di Hormuz sarebbe perciò palesemente illegale. L’Iran sarebbe considerato dalle Nazioni Unite uno Stato violatore della legalità internazionale ed a suo carico sarebbero irrogate sanzioni coercitive tra le quali non potrebbe mancare l’autorizzazione a tutti gli Stati a usare ogni mezzo per affermare la libertà di navigazione nello Stretto.

Scenari di crisi
Di pari passo con l’annuncio statunitense di sanzioni finanziarie nei confronti delle banche straniere che intrattengono rapporti commerciali con la banca centrale iraniana (unico interlocutore finanziario per l’export petrolifero) è andato crescendo l’attivismo dell’Iran. La Marina iraniana ha organizzato manovre navali, mentre il suo Capo di stato maggiore ha dichiarato che chiudere lo Stretto sarebbe estremamente facile.

Questa minaccia è stata anche ripetuta come risposta alle ipotesi di attacchi a siti nucleari da parte di paesi come Israele, che per la loro sicurezza nazionale agirebbero in difesa legittima preventiva. Il blocco dello Stretto viene dunque ipotizzato, più che come risposta a sanzioni economiche, come misura militare per reagire ad un attacco sul territorio. Si dice che così facendo l’Iran si soffocherebbe da solo, imponendo un embargo alle proprie esportazioni.

Ma non si considera che la chiusura dello Stretto potrebbe essere selettiva verso alcuni paesi considerati aggressori od ostili, risparmiando gli Stati “neutrali”. Quanto all’uso della forza, vi potrebbe egualmente essere un’attenta discriminazione degli obiettivi impiegando batterie costiere missilistiche e barchini esplosivi o minando determinati punti di passaggio. Un attacco a navi mercantili e/o da guerra in passaggio, configurerebbe comunque di per sé un’aggressione verso lo stato di bandiera.

Vi sarebbe perciò un’escalation militare in quanto l’aggredito sarebbe legittimato, sino all’intervento del Consiglio di Sicurezza, a reagire con la forza ex articolo 51 della Carta dell’Onu. Da non sottovalutare inoltre la minaccia asimmetrica occulta, visto che ogni giorno convogli di centinaia di petroliere passano sovraccariche a bassa velocità e possono essere facilmente bersagliate dalle vicine coste.

D’altronde nel 2010 la petroliera giapponese “M Star” riportò nello Stretto danni allo scafo addebitabili alla collisione con un oggetto non identificato che si presume essere una mina disattivata alla deriva. Il fatto pare fosse avvenuto in prossimità dell’area di acque internazionali che è all’imboccatura orientale dello Stretto in cui il 6 gennaio 2008 tre navi da guerra statunitensi sfiorarono lo scontro armato con cinque motoscafi veloci dei pasdaran iraniani.

Precedenti
Più di vent’anni fa tutto il Golfo Persico ed Hormuz sono stati teatro di eventi di grande rilevanza giuridico-strategica. Le modalità aggressive con cui le imbarcazioni di Pasdaran iraniani conducevano, nell’ambito dei diritti di belligeranza contro l’Iraq, la visita ai mercantili neutrali portarono i paesi occidentali ad impiegare nell’area proprie navi da guerra, comprese unità cacciamine, la cui attività fu coordinata dall’Ueo. L’Italia inviò un Gruppo navale della Marina militare con il compito di proteggere i mercantili di bandiera dopo l’attacco alla portacontainer ‘Jolly Rubino’ con colpi di bazooka avvenuto il 2 settembre 1987 al largo dell’isola di Farsi, ma mai rivendicato dall’Iran.

Lo stesso fecero altri paesi quali la Gran Bretagna e gli Stati Uniti che si assunsero anche la protezione di mercantili stranieri attribuendo loro la propria bandiera mediante reflagging. Iniziata sotto la veste dell’esercizio del diritto di visita a mercantili occidentali da parte di barchini dei ‘Guardiani della rivoluzione’ (pasdaran) iraniani, la crisi navale del Golfo Persico assunse ai primi del 1988 aspetti drammatici e radicali. Si parlò così di ‘tankers war’ dopo che alcune petroliere divennero obiettivi di rappresaglie iraniane.

In questo contesto si colloca il provvedimento adottato dalla Marina italiana di scortare i mercantili di bandiera durante i transito nello Stretto. Una ferma presa di posizione contro il minamento delle acque internazionali da parte iraniana fu espressa dall’allora ministro degli esteri Giulio Andreotti.

Internazionalizzare la risposta
Ripensare gli avvenimenti della I Guerra del Golfo serve a convincersi che la libertà di navigazione attraverso quello che è a ragione definito come un “global chokepoint” non è questione che possa riguardare singoli paesi. Correttamente gli Stati Uniti, di fronte alle proteste iraniane per l’ingresso nel Golfo di portaerei, hanno replicato che la loro funzione è di garantire la libertà di navigazione. Compito questo che tutte le Marine, a cominciare da quella italiana, hanno sempre assolto onorevolmente, anche nell’area di Hormuz, nell’interesse della comunità internazionale.

Se è così occorre concertare una risposta collettiva (cui associare tutti gli Stati con rilevanti interessi energetici come Cina e Giappone) nell’ambito delle Nazioni Unite che prevenga la crisi, facendo affidamento sia sulla ragionevolezza dell’Iran che sul ruolo dell’Oman quale “guardiano” imparziale del transito nello Stretto. Non rinunciando ad ipotizzare l’impiego di Forze navali Nato o di altre coalizioni internazionali in ruoli simili a quelli assolti nel 2004 dall’operazione Active Endeavour nello Stretto di Gibilterra.

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