Dove va la Siria
Sebbene i media continuino a parlare della guerra civile in Siria come di un evento in procinto di accadere, nei fatti essa è già ampiamente iniziata. Il punto fondamentale da comprendere, ora, è se ci sarà una sua internazionalizzazione. L’evoluzione della crisi ha già visto una prima internazionalizzazione con la sfortunata missione degli osservatori della Lega araba, che è stata ritirata il 28 gennaio. Un nutrito gruppo di paesi arabi sta tuttavia lavorando per una risoluzione del Consiglio di sicurezza (Cds) dell’Onu che consenta l’intervento di forze militari – arabe, secondo una esplicita pronuncia dell’emiro del Qatar.
Offensiva sunnita
D’altra parte, la Turchia è di fatto già impegnata a ricevere profughi siriani per proteggerli dalle forze armate lealiste e, nello stesso tempo, a ospitare le forze armate libere della Siria (che operano ormai concretamente sul territorio). Dopo i recenti sviluppi in Libia, gli occidentali sono molto riluttanti a intervenire, anche alla luce dell’aggravamento della crisi economica e finanziaria. La Russia sta attivamente cercando una soluzione politica interna alla Siria, onde evitare che la crisi si internazionalizzi, e perciò ostacola (e potrebbe giungere anche a opporre il veto nel Cds) i membri che stanno invece cercando di attivare in qualche modo l’Onu.
Mentre è difficile fare previsioni, può essere utile considerare in maggior dettaglio il complesso quadro regionale e internazionale in cui si colloca la crisi siriana. Quest’ultima ha infatti assunto un valore determinante per gli sviluppi che, sotto il nome di Primavera araba, stanno cambiando l’equilibrio strategico del Medio Oriente.
Le parti al centro della crisi siriana si sono via via delineate. L’opposizione è dominata da una maggioranza sunnita, animata dai Fratelli Musulmani e sostenuta da paesi arabi del Golfo. In Siria si tocca con mano il perno su cui si muove il rivolgimento strategico arrivato nella regione con la primavera araba: l’emergere di una indiscutibile preminenza dei movimenti e partiti islamisti sunniti. Questa dinamica, comunque insita nel collasso dei regimi autoritari post-nazionalisti, è stata consolidata in Marocco, Tunisia ed Egitto dal sostegno dei paesi del Golfo che, proprio per mezzo dell’intervento in Siria, alleato chiave dell’Iran e degli sciiti, la stanno ora proiettando su base regionale e trasformando in un’offensiva araba, sunnita e conservatrice contro l’Iran e i suoi alleati: un’asse sunnita contro l’ “asse del male”.
Longa manus di Putin
Alla prospettiva di una Siria guidata dai Fratelli Musulmani e radicata nell’emergente quadro regionale sunnita si contrappongono i gruppi dell’opposizione non sunnita agi Assad. Questi comprendono i liberali democratici del Consiglio nazionale siriano (Cns), i cristiani in generale, il Comitato di coordinamento, composto da varie correnti secolariste e dai curdi siriani, assieme a svariate altre formazioni minori.
Una minoranza di questi gruppi non sunniti vede con favore un intervento straniero. La maggioranza invece è contraria per timore che tale intervento porti alle conseguenze che si sono viste prima in Iraq e ora in Libia. Essi perciò stanno cercando di trovare un compromesso con quei segmenti del regime che sarebbero disposti a defenestrare gli Assad e procedere a delle riforme per mezzo di un governo di unità nazionale.
Un recente articolo di Sami Moubayed, il direttore di “Forward Magazine” di Damasco, ha delineato in dettaglio il possibile profilo di questo governo, che potrebbe essere presieduto da una personalità dell’opposizione oppure da un baathista di rilievo nazionale – si parla di Farouk el-Shara – e comprendere tra le sue fila i leader dei curdi e di gruppi secolari.
Lo stesso articolo sostiene che questo compromesso è attivamente sostenuto dal governo russo. Per la Russia di Putin, in competizione con l’Occidente, la Siria è l’avamposto attraverso il quale avere un piede nel Mediterraneo. Nel nuovo panorama politico arabo, tuttavia, la difesa del regime degli Assad aliena a Putin la simpatia di diversi paesi arabi. Un valido compromesso che riformi il regime senza rivoluzionarne le scelte, rappresenterebbe dunque, per Mosca, un’ottima soluzione.
Un accordo fra tendenze secolari con l’obbiettivo di passare da un secolarismo dispotico ad uno meno dispotico, escludendo un attore significativo come i sunniti, non sembra tuttavia in grado di mettere termine alla guerra civile in corso. Inoltre, alcuni gruppi secolari, come il Cns, difficilmente possono accettare un compromesso come quello che i russi sembrano sostenere.
Bouran Ghalioun, presidente del Cns, già nel novembre scorso ha assicurato i diplomatici russi che gli interessi del loro paese in Siria, compresa la base navale di Tartus, sarebbero rispettati. Lo ha fatto di sicuro nel tentativo di ammorbidire l’opposizione russa in sede Onu ad una risoluzione sulla Siria; assai meno certamente nella prospettiva del compromesso di cui si è appena detto (e della supertutela russa che esso di fatto comporterebbe).
Leadership from behind…
Tutto questo subbuglio vede l’Iran praticamente assente. Ha mandato armi e personale di sicurezza, ma sul piano politico appare incapace di impedire la rovina che aggredisce il suo maggior alleato regionale. La crisi che Teheran ha minacciato nello stretto di Hormuz, certamente diretta a distogliere l’attenzione dell’Occidente e degli arabi dalla Siria, è apparsa ben presto come un bluff. L’Iran non ha né gli strumenti politici, né quelli militari per intervenire in una guerra civile.
Questa difficoltà è aggravata dalla profonda spaccatura politica interna. La crisi siriana e la sua evoluzione tendono inoltre ad allontanare dall’Iran i suoi alleati. Questo allontanamento è meno evidente per il governo iracheno, mentre lo è, ad esempio, per Hamas e, in Libano, per Hizbollah, che sta tenendo un profilo insolitamente basso. Probabilmente, come il primo ministro israeliano Netanyahu, anche il leader di Hizbollah, Nasrallah, pensa che Assad ha i giorni contati. Nasrallah si appresta quindi all’eventualità che la Siria diventi un fardello di cui liberarsi nella prospettiva di capitalizzare la sua base nazionale, consolidando una più vasta alleanza anti-sunnita nel paese e mantenersi così al governo.
In sostanza, l’offensiva sunnita parrebbe vincente. L’Occidente, come abbiamo detto all’inizio, ha in tutto questo una posizione defilata. Gli Stati Uniti si preoccupano molto di più dell’Egitto, perché in un mondo arabo dominato da correnti religiose, questo paese garantisce un contrappeso agli eccessi sauditi. Il compromesso parlamentare-presidenziale che si profila al Cairo va nella stessa direzione per la quale la diplomazia occidentale ha lavorato in questo anno: avere un mondo sunnita alleato o, comunque, non nemico dell’Occidente.
Questo sacrifica le tendenze secolari che hanno fatto da levatrici alla Primavera araba, ma lascia sopravvivere delle tendenze religiose liberali e moderate nel cui ambito le forze democratiche troveranno modo di irrobustirsi e fare le loro battaglie, sullo sfondo di un Occidente benevolo ma non interventista.
Questo processo, in principio non esclude un intervento, se l’Onu riuscirà ad arrivare ad una risoluzione. Se mai ci sarà, sarà molto improbabile che tale intervento possa essere condotto dalla Nato e dell’Occidente. È più probabile che sarà arabo o turco o arabo-turco, confermando la deprecata “leadership from behind” che gli Usa hanno cominciato a praticare con la crisi in Libia. Del resto, i sunniti e gli arabi stanno già operando con apparente successo in una prospettiva anti-“asse del male” che è coerente con gli interessi occidentali.
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Vedi anche:
‘Russian initiative’ to guide Syria?, Sami Moubayed