Siria, Egitto, Israele nel nuovo Medioriente
Negli eventi che dall’inizio dell’anno si sono prodotti nel mondo arabo si intravvedono due elementi, uno di rivolta e l’altro di risveglio. Pur traendo forza e ispirazione soprattutto dalla religione, sia la rivolta sia il risveglio derivano in realtà da fattori e obiettivi di rinascita politica e culturale. Mentre la rivolta punta alla riforma dei regimi politici interni in senso democratico e popolare e traduce – direbbe Olivier Roy – il cambiamento sociale dei passati trent’anni nell’emergere di una sorta di spazio secolare, il risveglio guarda al ruolo degli arabi sunniti nella regione e nel mondo.
Libertà e indipendenza
Questo ruolo, nella percezione delle masse che si sollevano, è stato umiliato dall’incompetenza e dalla corruzione delle dittature, che dopo aver riempito il vuoto lasciato dalla sconfitta del nazionalismo panarabo, si sono alleate ora con l’Occidente ora con l’Iran, lasciando loro mano libera. Libertà e indipendenza sono due obiettivi delle sollevazioni che vanno strettamente a braccetto.
Le due chiavi di lettura della rivolta e del risveglio, tuttavia, non sono necessariamente concomitanti. I paesi del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in testa, sono principalmente interessati ad un rinvigorimento del ruolo internazionale dei sunniti, sia nel Golfo sia nella più vasta estensione del Medio Oriente. Non sono invece interessati ad un rivolgimento dei regimi politici interni. Essi vedono con favore – hanno anzi appoggiato – il cambiamento politico nei paesi del Nord Africa, perché questo cambiamento è guidato dalla Fratellanza musulmana.
Per il Qatar i Fratelli musulmani sono del tutto accettabili, sia in termini di cambiamento interno che esterno; sul piano interno per l’Arabia Saudita lo sono meno, poiché, malgrado tutto, i Fratelli musulmani che oggi si presentano sulla scena portano con sé una parte notevole delle trasformazioni sociali che sono avvenute nel frattempo e certamente sono assai lontani dai salafiti, i quali invece si accoppiano bene con la dottrina wahabita, quella ufficiale del regno saudita.
Agli occhi dei sauditi, tuttavia, i Fratelli garantiscono un approccio sunnita che potrebbe aiutare a cambiare l’equilibrio politico regionale e dare maggiore autonomia agli arabi sia verso l’Iran, sia verso l’Occidente e gli Usa. I Fratelli musulmani saranno probabilmente pluralisti in ambito domestico, ma saranno più intransigenti verso l’Occidente, in merito alla questione palestinese ed Israele, e impediranno all’Iran e agli sciiti (come quelli libanesi) di strumentalizzare quella stessa questione, come hanno fatto finora. Negli sviluppi che oggi chiamiamo “Primavera araba” c’è un elemento settario, di risorgimento sunnita, che è fondamentale nella prospettiva di cambiamento della politica estera e regionale degli arabi.
Nuovo equilibrio
Questa tendenza sta sempre più influenzando l’evoluzione della crisi siriana. La Lega araba, spinta dall’Arabia Saudita e dal Qatar, ha preso una posizione insolitamente dura verso la Siria, che si spiega innanzitutto con l’offensiva arabo sunnita che è emersa dalla Primavera araba e con i suoi obiettivi di contenimento dell’Iran, di risposta al suo sempre più evidente riarmo nucleare e missilistico e alle preoccupazioni di satellizzazione dell’Iraq dopo che le forze americane se ne saranno andate. Su questo convergono i sunniti turchi per proteggere i loro interessi e il loro ruolo regionale.
Ankara, con le sanzioni e l’ospitalità alle truppe ribelli e all’opposizione siriana, è oggi in prima fila contro quello che sembrava dovesse essere un partner regionale privilegiato. La rivolta siriana, nata come rivolta sociale dei contadini contro un regime che a un certo punto ha voltato loro le spalle, è dapprima evoluta come rivolta popolare democratica, ma sta ora sempre più assumendo la forma di una rivolta sunnita o guidata dai sunniti.
Mentre la valenza della rivolta democratica nella crisi siriana è relativamente importante, la valenza del risveglio arabo-sunnita è cruciale. Se il regime di Assad non dovesse reggere non avremmo solo un nuovo regime politico, ma un netto capovolgimento nell’equilibrio regionale che si è stabilito in Medio Oriente negli ultimi trenta anni e una svolta nella trentennale guerra fredda che ha sotteso quell’equilibrio: l’Iran sarebbe indebolito, lo stesso avverrebbe per il regime sciita dell’Iraq e il Partito di Dio in Libano. Potrebbero nascere conflitti armati.
Marginalità egiziana
In questo quadro l’Egitto – dove prevale la rivolta rispetto al risveglio – a causa della confusa evoluzione interna successiva all’estromissione di Mubarak, è attualmente ai margini. La maggioranza ai Fratelli musulmani che si profila dal primo round del lungo e complesso iter elettorale iniziato alla fine di novembre è destinata a stare senza dubbio in linea con l’offensiva contro l’alleanza siro-sciita-iraniana. Tuttavia, l’orientamento strategico della Fratellanza d’Egitto non è chiaro e, occorre anche dire che, mentre gli analisti si sono molto occupati delle sue propensioni ideologiche e politiche, molto meno si sa sulle loro prospettive di politica estera (che potrebbero rivelarsi molto sommarie).
In una prospettiva storica e nazionale, è difficile che l’Egitto si trovi in sintonia con l’Arabia Saudita, così come è difficile che il sunnismo egiziano converga con il wahabismo saudita. Se dalla crisi egiziana in corso uscirà un forte governo guidato dalla Fratellanza, l’Egitto tenderà ad egemonizzare l’attuale coalizione sunnita e impedire che l’Arabia Saudita abbia la leadership e imponga il suo estremismo teologico. Questo non avverrà, però, se i Fratelli musulmani egiziani decideranno di allearsi con i salafiti.
Infine, ci si può anche chiedere come reagiranno i militari egiziani, che sembrano una novità nella loro stessa tradizione. All’inizio si sono spacciati per amici del popolo. Ma poi è apparso chiaro che il loro obiettivo era di abbattere Mubarak, il cui figliolo aveva minacciato di ridimensionare i loro interessi economici e corporativi (non si sa se in una prospettiva di rigore amministrativo o di competizione fra poteri). Infine è emerso che, così come rifiutavano il controllo dei Mubarak, non vogliono quello del nuovo regime democratico che potrebbe affermarsi nel paese.
Non sembrano ansiosi di prendere la guida politica del paese, come i liberi ufficiali degli anni cinquanta, ma sono soprattutto preoccupati di preservarsi e rafforzarsi come corporazione, con i loro hotel e la sovvenzione da 1,3 miliardi di dollari che arriva da Washington. Che accadrà se i Fratelli musulmani nel prendere il governo non vorranno accedere a compromessi? Potremmo avere un colpo di stato militare (meno commovente di quello del febbraio scorso) motivato da fini corporativi e mascherato in qualche modo da obiettivi politici (preservare il secolarismo dello stato, la pace nella regione, etc.). Perciò, mentre è sicuro che sull’attuale tendenza nella regione ad uno scontro anti-sciita volto a contenere l’Iran e supplire al vuoto americano, ad un certo punto influirà l’Egitto, è difficile però immaginare come ciò potrà avvenire.
Dilemma israeliano
Per completare il quadro, occorre guardare ad Israele. Nell’insieme i cambiamenti politici in corso nel mondo arabo suggeriscono un indurimento arabo verso Israele in relazione alla questione palestinese. Questo cambiamento, se non ci saranno mutamenti sostanziali nelle posizioni occidentali, si tradurrà in un peggioramento delle relazioni arabo-occidentali ma difficilmente in un nuovo conflitto. Quest’ultimo potrà esplodere se emergeranno tensioni o addirittura scontri fra i paesi sunniti e qualcuno avrà la tentazione di guadagnare posizioni strumentalizzando la questione palestinese.
Anche questa ipotesi, tuttavia, sembra eccessiva. Il governo di Netanyahu non sembra preoccuparsi dei cambiamenti arabi e del possibile venir meno di un arrangiamento che ha gestito l’equilibrio arabo-israeliano per trent’anni. La preoccupazione – che potrebbe anche essere un diversivo dell’inconscio – è l’Iran. Se Israele attaccherà l’Iran, ci sarà un ricompattamento delle parti regionali in presenza (anche se questo lascerà intatto il conflitto di fondo arabo-iraniano). Se questo avverrà, la febbre nazionalista e religiosa consumerà qualsiasi prospettiva di cambiamento sia all’interno dei paesi della regione, sia nelle relazioni fra questi paesi.
L’Occidente, indebolito dagli insuccessi della politica americana degli ultimi dieci anni, è praticamente assente dalla regione e sta a guardare. Una sua presenza, volta a dare uno sbocco positivo e cooperativo alle tensioni che si profilano, sarebbe invece necessaria, anche se la sua formulazione è ardua.
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