Pirateria all’assalto dell’Africa
Mentre la pirateria somala si avvia a entrare nell’anno IV della sua era con la nuova risoluzione 2015, la pirateria del Golfo di Guinea è comparsa ufficialmente sulla scena delle Nazioni Unite durante una riunione del Consiglio di sicurezza, cui è seguita l’emanazione della risoluzione 2018 del 31 ottobre.
Di fronte alla nuova crescente minaccia, la comunità internazionale ha scelto di non continuare a sottovalutare la pirateria dell’Africa occidentale, anche se essa è distinta rispetto a quella somala quanto a tipologia di attività criminali (depredazioni e traffico di armi e droga, ma non sequestri a scopo di lucro) e a capacità di risposta.
Approccio regionale?
Molti sono gli attori già all’opera nel contrasto della pirateria del Golfo, a cominciare da quelli regionali come l’Economic Community of West African States (Ecowas) e la Maritime Organization of West and Central Africa (Mowca).
L’Europa e la Nato non si sono ancora confrontati apertamente con la questione né lo ha fatto l’Italia, che tuttavia ha subito negli ultimi mesi, innanzi alle coste del Benin, l’assalto a due propri mercantili (l’”A. Bottiglieri” e la “RDB Anema e Core”) e che nell’area ha cospicui interessi energetici con l’Eni, le cui piattaforme petrolifere sono state più volte attaccate.
Francia e Stati Uniti hanno invece precorso i tempi attivando forme di cooperazione navale con Nigeria, Benin e Ghana. Di fronte alla nuova risoluzione 2018 basata sul Capo VIII della Carta, che è dedicato alla cooperazione regionale, c’è da chiedersi se questo approccio sia il migliore e se da esso possano venire spunti per la soluzione della crisi del Corno d’Africa.
Il Golfo di Guinea
Impunità dei pirati
È innegabile che la comunità internazionale si sia trovata impreparata di fronte al compito di perseguire penalmente i pirati secondo i principi di riparto discrezionale della giurisdizione stabilito dalla Convenzione del diritto del mare (Unclos). Non sentendosi vincolati dal principio del “aut dedere aut judicare” – presente nel Protocollo di Londra sul Terrorismo Marittimo e, secondo alcuni, oramai facente parte del diritto consuetudinario – molti stati hanno preferito rinunciare a esercitare la loro giurisdizione, garantendo quindi l’impunità ai pirati catturati.
Sinora venti stati hanno istruito processi condannando circa 500 pirati. Ma limitata è stata l’applicazione degli accordi dell’Unione europea sulla loro consegna, al di fuori di una procedura di estradizione, a Kenya, Mauritius e Seychelles (che a sua volta dovrebbe trasferire nel Puntland e nel Somaliland, sotto la supervisione dell’Unodoc, i pirati già condannati).
Peraltro solo l’Italia, con la legge n. 100/2009, ha formalmente regolamentato l’applicazione di questi accordi Ue, prevedendo una riserva di giurisdizione nazionale qualora ad essere offesi siano cittadini e beni italiani. Ciò ha consentito di trasferire in Italia, sottopendoli a misura cautelare, i 15 pirati arrestati sulla M/N “Montecristo”.
Ora, con la risoluzione 2015 del 24 ottobre, il Consiglio di sicurezza ha sciolto il nodo della perseguibilità penale prevedendo la costituzione, secondo standard internazionali, di Corti specializzate in Somalia o di Corti delocalizzate in altri paesi africani, per giudicare non solo i responsabili di atti di pirateria, ma anche loro mandanti, complici e profittatori.
Ci vorrà del tempo prima che si realizzino queste misure, ma intanto è necessario esser certi che almeno i paesi del Golfo di Guinea, come indicato nella risoluzione 2018, siano “willing and able” (volenterosi e capaci) a perseguire i pirati operanti in aree di giurisdizione nazionale o non richiedano, come il Kenya, contropartite finanziarie.
Se non si vuole che si riapra la piaga dell’impunità somala, è bene che la speciale missione inviata nell’area del Golfo dal Segretario generale dell’Onu valuti preventivamente questo aspetto. È tempo inoltre che in seno alle Nazioni Unite vi sia un dibattito aperto sulle omissioni di alcuni stati (in gran parte appartenenti a quelle che un tempo erano le “bandiere ombra”) nel richiedere l’estradizione di pirati che avevano attaccato proprie navi.
Cooperazione navale
L’ operazione europea Atalanta e quella Nato Ocean Shield rappresentano la forma tipica di cooperazione nel contrasto alla pirateria prevista dall’Unclos ed auspicata dalle Nazioni Unite. La loro limitata validità temporale costituisce tuttavia un elemento negativo. Il fatto è che l’Unclos non prevede un obbligo per le navi da guerra di reprimere la pirateria, ma solo una facoltà. Di regola le Marine stabiliscono quindi che, a meno di risoluzioni coercitive emanate dal Consiglio di sicurezza come nel caso della Somalia, le operazioni antipirateria siano limitate ai casi di minaccia ai connazionali e ai loro beni.
Sino a quando non si modificherà l’Unclos adeguandola alla nuova realtà della minaccia globale, la soluzione migliore rimane quella di accordi quadro per attività navale in bacini a rischio sul modello di quello antidroga nei Caraibi del 2003.
Proprio come ipotizzato dalla risoluzione 2018, che ha incoraggiato gli stati aderenti a organizzazioni regionali dell’Africa centro-occidentale a condurre pattugliamenti congiunti (un Memorandum of Understanding, Mou, a ciò dedicato nel Golfo di Guinea è stato già sviluppato da Mowca e Imo; le Marine di Nigeria e Benin già operano insieme). Un’iniziativa simile sarebbe opportuna, sotto gli auspici dell’Onu, per il Corno d’Africa, anche se nel 2008 non ha avuto esito positivo il tentativo di stipulare in Tanzania un analogo accordo.
L’area a rischio pirateria somala (fonte Nato SC)
Capacity building marittimo
Gli sforzi per sviluppare le capacità marittime degli stati del Corno d’Africa non hanno sinora avuto esito favorevole. L’Italia è il principale sostenitore dell’esigenza che la Somalia si doti finalmente di Forze di pattugliamento costiero. Ed è stata l’Italia a finanziare – con un progetto che dovrà essere completato quando la situazione politica dello Yemen si stabilizzerà – l’addestramento della Guardia costiera yemenita e l’installazione di una rete di sorveglianza del traffico marittimo.
La risoluzione 2018 evidenzia invece che sono già in atto nel Golfo di Guinea attività internazionali di assistenza nel contrasto alla pirateria. Rilevante è, al riguardo, l’azione discreta, ma efficace sinora svolta dagli Stati Uniti con il programma “Africa Partnership Station” (Aps) di addestramento antipirateria di militari del Benin, Togo e Ghana. Anche la Marina francese ha inviato in area una propria unità di addestramento e la Cina ha finanziato la cessione al Benin di naviglio di pattugliamento.
Strategia realistica
La soluzione adottata dalle Nazioni Unite con la risoluzione 2018, volta a far leva sulla leadership degli Stati del Golfo di Guinea per neutralizzare la crescente pirateria, appare la più razionale. È chiaro che questo modello non è ancora applicabile alla situazione somala, ma esso è il solo obiettivo da perseguire nel medio periodo quando le istituzioni somale diventeranno effettive, a partire dal 2012, secondo il percorso approvato dall’International Contact Group for Somalia di cui fa parte l’Italia.
Occorre tuttavia evitare che nel Golfo si ripetano tutte le incongruenze e le criticità verificatesi in tre anni di operazioni antipirateria al largo del Corno d’Africa. Proprio per questo il nostro paese, a fronte del continuo rischio di sequestri a propri mercantili, ha dovuto dotarsi con la legge 130/2011, oltre che di contractors, di “nuclei militari di protezione” della Marina Militare da imbarcare su navi di bandiera nelle aree a rischio (per ora quella ad est della Somalia).
Significativo è anche il fatto che l’Italia abbia ottenuto, in seno al Gruppo di contatto Onu sulla pirateria, la guida di un nuovo gruppo di lavoro dedicato ai flussi finanziari derivanti dai riscatti. La frammentazione e la lentezza del processo decisionale delle Nazioni Unite sulla pirateria del Corno d’Africa sono il segno più evidente di un’azione non del tutto adeguata, anche perché l’aver agito sotto il Capo VII autorizzando “tutti i mezzi necessari” si è rivelata una formula priva di effettivi contenuti: in teoria sarebbe possibile usare la forza a terra, per snidare i pirati secondo la risoluzione 1851, ma sinora gli Stati intervenuti si sono limitati ad applicare in mare l’Unclos.
Proprio come avrebbero potuto fare in assenza di un esplicito mandato dell’Onu. Una maggiore concretezza accompagnata dalla volontà di definire accordi applicativi dell’’Unclos sulla giurisdizione e sull’enforcement marittimo avrebbero consentito una migliore gestione dell’onerosa attività di contrasto navale. Questi errori saranno forse evitati nel Golfo di Guinea.
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