La svolta Pacifica di Obama
Negli ultimi giorni l’Asia pacifica, quell’area che si estende oltre la Cina e l’India e che lambisce il più grande oceano terreste, sembra essere tornata alla ribalta a seguito della visita di Obama in Australia. Il “discorso di Canberra”, pronunciato al parlamento australiano, segna infatti una svolta “Pacifica” nella politica estera americana, con effetti geopolitici rilevanti per tutta la regione. Si tratta di un’area quanto mai estesa, caratterizzata da una grandissima frammentazione fisica, geografica, economica e politica, e con potenze emergenti come Cina, Vietnam, Indonesia e Malesia.
Stati Uniti in Asia
Il dominio navale è sempre stato cruciale in quest’area del mondo, caratterizzata da moltissime isole delle dimensioni più diverse. La Seconda guerra mondiale impegnò gli Stati Uniti in una serie di difficili operazioni aeronavali ed anfibie per sconfiggere il Giappone; al termine del conflitto, Washington costruì una rete di stati alleati per “cinturare” una possibile espansione della Cina e dell’Urss verso il Pacifico. Giappone, Taiwan, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda sono da allora rimasti fra i migliori partner militari che l’America ha nell’Asia pacifica.
Nell’ultimo decennio, però, le energie americane sono state assorbite soprattutto dal Medioriente. Così, dopo dieci anni di guerra in Afghanistan, quasi altrettanti di Iraq, e estenuanti negoziati con Iran, Israele e Palestina, l’agenda statunitense sembra aver compiuto una decisa “virata” ad ovest (di Washington), verso l’ Asia.
Priorità
Il 16 novembre il presidente Obama ha tenuto un discorso al parlamento australiano, che se formalmente doveva servire per rimarcare la stretta amicizia fra Australia e Stati Uniti, in realtà è stato un chiaro manifesto politico sul futuro impegno strategico di Washington.
I pochi passaggi di storia comune hanno lasciato subito il posto all’attualità, che Obama ha riassunto in poche ma chiare frasi: “come nazione Pacifica gli Stati Uniti intendono avere un ruolo maggiore, di lungo periodo nel presente e nel futuro della regione” e “la nostra missione e presenza in Asia è una priorità (top priority)”.
Successivamente il premier australiano Julia Gillard ha illustrato i dettagli del nuovo accordo austro-americano: il dispiegamento di un’unità di 250 Marines nel nord dell’Australia, nonché una serie di collaborazioni più strette fra l’aeronautica militare australiana e quella statunitense. L’iniziale dispiegamento di militari statunitensi sarà poi destinato a crescere fino a 2.500 unità: si tratta del più grande schieramento di personale militare in Australia dalla Seconda guerra mondiale.
Nel clima di grande cordialità che ha caratterizzato l’incontro, non sono poi mancati momenti per ripercorrere e ribadire la profonda vicinanza fra i due paesi, quasi “partner naturali” in un estremo oriente che sta cambiando rapidamente.
Interessi strategici
La missione di Obama, che capita a pochi giorni dal settantesimo anniversario dell’attacco di Pearl Harbour (7 dicembre 1941), per quanto breve è stata densa di significati politici.
Il primo è il mantenimento della tradizionale partnership strategica fra Washington e Canberra. Con oltre 7,7 milioni di chilometri quadrati su cui vivono solo 22 milioni persone, l’Australia è particolarmente attenta a seguire soprattutto le dinamiche del suo fronte settentrionale, dove le recenti ambizioni navali di Pechino destano molte preoccupazioni. Non è un caso che i militari americani che verranno schierati nel nord del paese siano i Marines, reparti addestrati per operazioni aeronavali e particolarmente capaci di gestire operazioni anfibie. Come la storia ha insegnato, sono le unità più spendibili nel contesto del Pacifico.
In secondo luogo Washington con questa mossa termina una “cinturazione” politico-militare che parte dal Giappone, passa per la Corea del Sud, Taiwan, e oggi giunge fino in Australia, articolata in una lunga catena di basi. Gli Stati Uniti hanno un chiaro interesse nell’area perché, come ha evidenziato lo stesso Obama, l’Asia pacifica rappresenta una delle aree del mondo in maggiore sviluppo come economia e come popolazione, senza contare il crescente peso delle nuove potenze regionali.
Il terzo elemento è il multilateralismo, che spiega i copiosi riferimenti a tutti gli alleati di Washington nell’area. I ringraziamenti di rito, infatti, celano dei chiari interessi geopolitici. Gli americani sanno che il Pacifico è vasto, e non si possono realizzare operazioni aero-navali ad ampio raggio senza una base logistica abbastanza capace.
Le Hawaii, ultimo lembo americano nel Pacifico, sono molto lontane dalla zona di possibili operazioni. Perciò, se si vogliono utilizzare navi e aerei occorrono delle basi avanzate, cioè dei paesi “amici” disposti a fornire le necessarie strutture logistiche alle unità americane. L’Australia rappresenta l’ultimo anello di una lunga “catena” che gli Stati Uniti hanno steso dal Giappone sino al Sud del Pacifico; i vari anelli, ubicati nei paesi “amici”, possono fornire ai militari di Washington una grande quantità di aeroporti, porti, scali e basi.
Il quarto elemento è il monito a Pechino, la cui potenziale espansione navale preoccupa molti stati della regione, compresi ex alleati come il Vietnam. La presenza statunitense nell’area vuole essere un segnale di attenzione alle mosse della Cina che – comprensibilmente – non ha affatto gradito il nuovo approccio regionale americano, condannandolo sia con dichiarazioni ufficiali che con alcuni articoli ed editoriali sui giornali.
L’impegno Usa, quindi, sembra spostarsi verso l’Asia pacifica, con conseguenze che sul lungo periodo non potranno non ripercuotersi sui fragili equilibri regionali. La cooperazione statunitense con le potenze “amiche” locali potrebbe essere una buona carta da giocare in una partita in cui la cui posta si sta alzando sempre di più.
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