L’avventato intervento del Kenya in Somalia
Il 16 ottobre è partita ufficialmente l’operazione “Linda Nchi” (protezione Kenya). Le forze armate keniane hanno infatti deciso di invadere militarmente la Somalia meridionale per far fronte all’escalation di rapimenti e di atti di banditismo dovuti all’instabilità delle regioni di confine. I rischi dell’intervento militare possono essere molteplici. Intanto il movimento islamista somalo degli Shabaab, che controlla gran parte dei territori meridionali e che ad agosto si era ritirato da Mogadiscio, si dice pronto a resistere.
Tensione crescente
Il 7 ottobre scorso, quasi in contemporanea con il grave attentato che aveva colpito Mogadiscio, una delegazione keniana composta dal ministro degli esteri Moses Wetangula e dal ministro della difesa Yusuf Haji si trovava nella capitale somala per un incontro con i vertici delle Istituzioni federali di transizione (Ift) somale. Al centro della discussione vi era un possibile piano per porre in sicurezza i confini meridionali del paese.
Negli ultimi due mesi l’escalation di rapimenti a scopo estorsivo ai danni di cittadini europei nell’arcipelago di Lamu – nota località turistica keniana – rischiava di mettere in ginocchio il settore turistico della regione, ma non solo. Sull’area sono allo studio importanti progetti infrastrutturali per ampliare il porto di Lamu, dove la compagnia cinese JS Neoplant Co. LTD sarebbe già pronta a stanziare parte dei 16 miliardi di dollari necessari anche per la costruzione di un oleodotto che collegherà il Kenya ai pozzi del Sud Sudan.
Fonte: BBC-News Africa.
Il governo del Kenya ha attribuito l’ultima escalation di rapimenti a gruppi di miliziani connessi al movimento islamista degli Shabaab, anche se questi ultimi hanno sempre smentito. Per capire quale sia la responsabilità dei giovani mujahideen, occorre precisare che il confine somalo-keniano è attualmente tra i più instabili di tutto il Corno d’Africa.
Dalla caduta dell’ultimo governo di Siad Barre, nel 1991, le regioni somale del Basso Giuba e del Gedo sono diventate degli importanti crocevia per i traffici transnazionali che per anni hanno sorretto e rifornito buona parte dell’economia informale del paese. Dall’estate del 2008, la graduale conquista dei maggiori centri di interscambio commerciale da parte degli Shabaab – tra cui l’importante città portuale di Chisimaio – ha bloccato la capacità di movimento di diverse bande armate, che avrebbero così deciso di riconvertire parte delle proprie attività illecite oltreconfine.
Rischi elevati
Dall’ azione militare il Kenya ha forse più da perdere che da guadagnare. Ci sono almeno due ragioni per considerare l’operazione “Linda Nchi” avventata e rischiosa. La prima è direttamente connessa alla capacità di movimento sul campo e alla volontà politica di sostenere una possibile occupazione. Le forze keniane sono certamente più addestrate e organizzate delle milizie Shabaab, che tuttavia possono contare su una posizione di netto vantaggio se l’invasione dovesse trasformarsi in un’occupazione.
Come già sperimentato durante l’intervento dell’Etiopia – avvenuto tra il dicembre 2006 e il gennaio del 2009 – le forze islamiste hanno un’ottima preparazione nel condurre azioni di guerriglia urbana. Il governo di Nairobi potrebbe dunque rischiare di impantanarsi in un conflitto che metterebbe a dura prova le sue forze armate. Se nel 2006 la caduta dell’Unione delle Corti islamiche fu il preludio alla scalata Shabaab, una sconfitta delle milizie islamiste potrebbe prefigurare scenari ben peggiori.
Il secondo fattore di rischio della missione militare keniana risiede invece nell’eventualità di pericolose ritorsioni. Il Kenya, e in particolare Nairobi, ospita una folta comunità somala. Se con l’attentato di Kampala (Uganda) del luglio del 2010 gli Shabaab hanno dato prova di poter colpire anche al di fuori dei propri confini, una possibile azione di attacco sarebbe ancor più facilitata in un contesto caratterizzato da una forte presenza somala, sia in termini numerici che economici.
Sicurezza e stabilizzazione
L’operazione militare del Kenya si sta svolgendo contemporaneamente all’avanzata delle forze di peace-support dell’Unione africana a Mogadiscio. La missione Amisom (African Union Mission in Somalia) è l’unica che può garantire la presenza delle fragili istituzioni somale nella capitale. Il processo di pace e di normalizzazione politica presenta ancora diverse lacune, come ha dimostrato l’ultima conferenza consultiva di Mogadiscio, svoltasi tra il 4 e il 6 settembre per volere del rappresentante speciale dell’Onu Augustine Mahiga e caratterizzata da numerose defezioni tra le stesse forze ostili agli Shabaab.
Secondo un recente rapporto del Center for the American Progress le spese mobilitate dalla comunità internazionale per far fronte alla crisi somala presentano un notevole squilibrio. Le risorse elargite per la stabilizzazione e lo sviluppo del paese sono infatti nettamente inferiori a quelle allocate per aspetti inerenti la sicurezza – attività di antiterrorismo e di intelligence, contrasto alla pirateria e sostegno militare alle missioni di peace-support. Dal 1991, l’ammontare delle spese per il comparto sviluppo si aggira intorno ai 13 miliardi di dollari, mentre quelle per la sicurezza raggiungono quasi i 32 miliardi.
La stabilizzazione politica e il contrasto militare alle milizie Shabaab, che in molti – soprattutto oltreoceano – vedono come due elementi connessi, si dimostrano essere profondamente conflittuali. I pericoli più immediati derivanti dall’ascesa di movimenti qaedisti o dall’aumento della pirateria e del banditismo hanno innescato nella comunità internazionale risposte sbrigative e poco lungimiranti. Ciò si è riflesso negativamente sull’atteggiamento della classe politica del paese, sempre più predatoria e priva di legittimità politica.
.