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Cooperazione e specializzazione

La Nato dopo la Libia

10 Ott 2011 - Alessandro Marrone - Alessandro Marrone

La missione Nato Unified Protector, in Libia, ha segnato significative novità nell’evoluzione recente dell’Alleanza, ha confermato importanti elementi di continuità, e ha evidenziato gravi e persistenti criticità specie tra i paesi europei.

La prima rilevante novità consiste nel fatto che la missione si è svolta nonostante l’opposizione politica della Germania e senza la partecipazione alle operazioni di circa metà degli stati membri della Nato. Occorre tuttavia notare che in sede di Consiglio Nord Atlantico, il massimo organo decisionale dell’Alleanza, tutte le decisioni vengono prese per consensus, e quella su Unified Protector non ha fatto eccezione: la Germania non si è formalmente opposta, così come non si è opposta nel voto al Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Due velocità
La forte, e palese, divergenza politica che si è manifestata all’interno dell’Alleanza, piuttosto che sfociare in una frattura come ai tempi dell’intervento in Iraq, è stata ricomposta in una formula per cui i paesi decisi ad agire l’hanno fatto attraverso le strutture comuni Nato ed in particolare il comando militare integrato, cui contribuiscono tutti e 28 gli stati membri, inclusa la Germania.

È presto per dire se ciò segna un ulteriore passo nella direzione di un’Alleanza “a due velocità”, in cui cioè alcuni paesi intervengono e altri lasciano fare, ma nel caso libico si è trattato probabilmente dell’unico modus operandi in grado di far partire le operazioni. Modus operandi che ha visto comunque i paesi membri, Francia e Gran Bretagna in primis ma non solo, muoversi indipendentemente da Unified Protector quanto all’utilizzo di forze speciali sul terreno libico, e che ha lasciato anche una certa autonomia nazionale nelle regole di ingaggio per elicotteri e caccia.

La seconda novità, che ha avuto meno risalto sui media, è stata la partecipazione a Unified Protector di paesi arabi quali Giordania, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. A livello operativo tale partecipazione è stata estremamente limitata, poco più che simbolica. Ma proprio il messaggio simbolico ha un certo peso politico. La partecipazione dei rappresentanti dei tre paesi alle riunioni del Consiglio Nord Atlantico in “formato Unified Protector” – cioè i 28 paesi membri dell’Alleanza più i paesi contributori – ha segnato un importante passo in avanti nella cooperazione tra Nato e paesi arabi.

Passi avanti
In questo formato i paesi contributori non hanno un diritto di veto, e quindi non sono equiparati ai paesi membri dell’Alleanza, tuttavia possono contribuire attivamente al processo decisionale. Ciò non ha rappresentato una novità assoluta, in quanto già da anni, quando si discute della missione Nato in Afghanistan, il Consiglio si riunisce in “formato Isaf”, cioè i 28 paesi membri più altri 20 paesi contributori.

È stata però una novità relativa rispetto al Mediterranean Dialogue e all’Istanbul Cooperation Initiative (Ici), i due partenariati Nato con i paesi del Mediterraneo e del Golfo lanciati rispettivamente nel 1994 e nel 2004, che finora erano andati poco oltre un’azione di confidence building.

Alla luce dei cambiamenti nel mondo arabo, e sulla base della cooperazione attuatasi nei sette mesi di missione Unified Protector, in futuro potrebbe esserci qualche evoluzione anche su questo fronte. La Libia potrebbe, ad esempio, essere inclusa tra i partner della Nato, nel caso in cui la transizione dovesse andare a buon fine. La cooperazione nell’ambito di Unified Protector ha riguardato anche organizzazioni regionali quali la Lega araba e l’Unione africana, con il presidente di quest’ultima che ha partecipato a diverse riunioni del Consiglio, nonché con l’Onu il cui mandato è stato considerato una conditio sine qua non per l’intervento.

In generale, l’approccio è sostanzialmente in linea con il Concetto strategico adottato dalla Nato nel 2010, in quanto non ambisce ad un ruolo globale della Nato in quanto tale, ma a raggiungere una capacità di intervento fuori dal teatro strettamente europeo soprattutto grazie a partenariati con paesi terzi e altre organizzazioni internazionali.

Capacità che non si traduce necessariamente in operazioni di terra su larga scala, come in Afghanistan, per le quali non ci sono né la volontà politica né le risorse: non a caso Unified Protector è stata prorogata fino alla fine del 2011 senza prevedere una missione di terra, e se non vi saranno cambiamenti radicali sul terreno – sempre possibili – è probabile che la missione abbia termine nei tempi previsti, lasciando spazio ad altre forme di assistenza e partenariato.

Americani ed europei
Altra novità significativa di Unified Protector è stato il diverso ruolo degli Stati Uniti, rispetto alla indiscussa leadership politica e militare esercitata ad esempio in ambito Isaf, in Afghanistan. A livello politico, se è vero che formalmente Francia, Gran Bretagna e Canada hanno avuto la guida formale dell’operazione – con i primi due molto esposti sul piano politico, diplomatico e mediatico – gli Stati Uniti hanno comunque contribuito significativamente alla definizione delle linee guida della missione, in sede di Consiglio e di Gruppo di contatto.

A livello militare, se è vero che Francia, Gran Bretagna e Italia hanno condotto la stragrande maggioranza delle sortite aeree, con un contributo minore da parte di mezza dozzina di altri paesi membri, è anche vero che le strutture americane sono state indispensabili per le operazioni.

Le capacità statunitensi, non solo nella prima fase di attacchi missilistici, si sono infatti rivelate insostituibili per stabilire la no-fly zone sulla Libia. Ma per tutta la durata della campagna aerea sono rimaste vitali soprattutto per quanto riguarda le attività di Intelligence surveillance and reconnaissance (Isr) e il rifornimento in volo.

Altrettanto vitale per la logistica della missione è stato l’utilizzo delle basi italiane, senza le quali non sarebbe stato possibile condurre la campagna aerea.

Riguardo ad assetti ed equipaggiamenti, la missione Unified Protector ha dunque ulteriormente evidenziato la differenza tecnologica tra Europa e Stati Uniti, e i limiti quantitativi e qualitativi delle capacità europee, incluse quelle inglesi e francesi. La campagna militare è stata sì impegnativa e prolungata, ma certo non oltre le ambizioni dichiarate dai principali paesi del vecchio continente. Ciò nonostante i paesi della Nato sono arrivati al traguardo con il fiato corto. Tali ritardi sono derivati non solo dalla stagnazione dei bilanci della difesa in Europa, ma anche dall’inefficiente uso delle risorse a livello nazionale.

Ciò è particolarmente vero considerato che, come dimostrato dalla campagna in Libia, occorre mantenere in ambito europeo adeguate capacità per l’intero spettro di operazioni militari, da quelle di contro-guerriglia a quelle di combattimento ad alta intensità, in ambito aereo, di terra o marittimo. Il quadro strategico, ormai da anni altamente mutevole e imprevedibile, non permette infatti di escludere nuove crisi e interventi del tipo di quelli compiuti in Libia, Afghanistan, Balcani o Somalia per il contrasto della pirateria, molto diversi tra loro e tuttora in corso.

Alla luce dell’esperienza libica, la riflessione della Nato punta dunque, anche su impulso del Segretario generale, Anders Fogh Rasmussen, sulla cooperazione internazionale e sulla specializzazione produttiva per mantenere lo spettro di capacità necessarie anche in tempi di tagli ai bilanci nazionali.

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