IAI
Gheddafi giustiziato

Fine tragica di un rais

22 Ott 2011 - Giampiero Gramaglia - Giampiero Gramaglia

La primavera araba spazza via le illusioni d’impunità dei vecchi satrapi: dopo Ben Alì e Hosni Mubarak, esce di scena Muammar Gheddafi. Ma il regime del colonnello finisce nel sangue. Dopo 42 anni di dittatura e otto mesi d’insurrezione e conflitto, la Libia ha in qualche modo chiuso con il suo passato e può ora guardare al futuro. Il paese deve restare unito e muoversi verso la riconciliazione ed il rinnovamento, dicono quasi all’unisono i leader del mondo. Consapevoli che le incognite sul futuro sono molte e pesanti: la coalizione degli insorti è traversata da divisioni tribali, religiose, sociali, politiche; e non v’è certezza che il percorso verso la democrazia fin qui abbozzato possa essere compiuto fino in fondo nei tempi indicati (entro un mese, un nuovo governo; entro un anno e mezzo, elezioni politiche).

Senza pietas
Intanto, l’uccisione di Gheddafi chiude una fase della partecipazione internazionale al conflitto libico e lascia gli insorti di ieri, che sono i vincitori di oggi, alle prese con i problemi della riconciliazione, della ricostruzione e della definizione dei nuovi assetti istituzionali e politici. La fine dell’intervento militare Nato, appena sancito dal Consiglio atlantico, era già scontata nelle prime reazioni del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, che chiedeva di “fermare i combattimenti” innescati da una risoluzione delle Nazioni Unite, il cui mandato – proteggere i civili – è stato molto dilatato dai raid alleati, e pure del presidente statunitense Barack Obama.

Le circostanze dell’eliminazione del colonnello sono tuttora incerte e confuse: resteranno per anni oggetto d’indagini e rivelazioni, come sta accadendo per l’eliminazione di Osama bin Laden. Alcuni punti apparentemente fermi appaiono, però, simbolici: il rais è stato ucciso a Sirte, la città dov’era nato e che era la sua roccaforte; ed è stato scovato in una sorta di fogna, una condotta dell’acqua, dove aveva cercato l’ultimo rifugio, lui che definiva “ratti” i ribelli.

Gheddafi è morto in Libia, come aveva più volte detto di voler fare, ma non combattendo, bensì scappando e, all’ultimo, implorando una clemenza (“Non sparate”) che non gli è stata concessa. La sua fine non è stata gloriosa: nulla di eroico, in quella morte. Ma nulla di eroico, neppure, nella festa barbara sul suo cadavere, vilipeso da una folla in festa. Come ci indignarono negli anni novanta le immagini del soldato americano trascinato per le strade di Mogadiscio, dopo essere stato ucciso nell’imboscata di ‘Black Hawke down’, così ci indignano pure queste.

Ed è subito polemica sulle immagini dello scempio del cadavere. Però, se le foto non ci sono, c’è chi le reclama: dopo l’eliminazione di bin Laden, il primo maggio, media e opinione pubblica internazionale contestarono agli Stati Uniti la carenza di documentazione fotografica. Se invece ci sono, c’è chi ne deplora la pubblicazione: le immagini del corpo di Gheddafi vilipeso e trascinato senza alcuna ‘pietas’, sono certo un’ostentata esibizione della miseria umana, ma sono anche, indubitabilmente, un documento storico. E, talora, la fine tragica e cruenta del tiranno è forse inevitabile, come fu per Mussolini e Hitler, per Ceausescu e Saddam Hussein (se lo avessero scovato nella sua tana le milizie sciite, invece che due marines ben addestrati, non ne sarebbe uscito vivo): un modo per liberare il popolo dalla fascinazione che ne subisce (e, magari, dalle sudditanze che gliene restano).

Ostaggio ingombrante
E, del resto, “meglio nella tomba che alla sbarra”: il filo rosso di un pensiero inconfessabile cuce fra di loro le dichiarazioni un po’ rituali che accompagnano la notizia dell’uccisione di Gheddafi, colonnello dittatore, prima nemico bandito, poi amico accettato di un Occidente distratto nella difesa, in Libia, dei diritti dell’uomo e dei valori della democrazia, perché petrolio e gas, lì, contavano di più. C’è, in molti commenti, il senso d’una sorta di ‘missione compiuta’, anche se nessuno, tanto meno l’Onu, aveva affidato all’Alleanza il compito di scovare e uccidere il leader libico.

Il sollievo nasce anche dalla considerazione che un Gheddafi vivo sarebbe stato ingombrante per i nuovi leader libici e per i suoi nemici delle ultime settimane, che furono suoi amici almeno negli ultimi dieci anni, dopo il suo sdoganamento dall’inferno dei protettori del terrorismo internazionale e la sua collocazione nel limbo di quelli con cui fai affari cercando, però, di averci poco a che fare. Naturalmente, con una gradualità d’atteggiamenti: dal distacco americano alle strette di mano francesi; dal baratto britannico del ‘boia di Lockerbie’ con un po’ di commesse, fino al bacio dell’anello italico.

Ve lo immaginate un Gheddafi da custodire prigioniero prima e da chiamare alla sbarra poi, per rendere conto dei crimini suoi e del suo regime? Ci sarebbe stato da litigare fra i nuovi libici e i loro alleati: i primi volevano processarlo ‘in casa’; i secondi fare valere il mandato di cattura della Corte dell’Aja, spiccato per crimini contro l’umanità. Quali che fossero i giudici, libici o, a maggior ragione, internazionali, il Colonnello poteva denunciare la combutta con il suo regime di molti degli attuali capi ribelli, oppure chiamare a rendere conto della loro amicizia nei suoi confronti i leader che lo avevano sdoganato, Bush jr e Blair, o quelli che gli avevano lasciato piantare la sua tenda nei loro giardini, Berlusconi e Sarkozy, senza parlare di una miriade di signorotti africani e del Terzo Mondo.

Vuoto Libia
Germano Dottori, docente di studi strategici alla Luiss, dice in un tweet: “Un’esecuzione di Gheddafi sembra probabile e pure logica: un processo internazionale sarebbe stato troppo imbarazzante”. In una sua analisi, il Times di Londra indica proprio Berlusconi e Blair tra quelli che tirano un sospiro di sollievo per i loro legami con Gheddafi. E l’Independent ricorda il “ripugnante dominio italiano” quando gli eroi libici erano impiccati, mentre il ministro della difesa italiano Ignazio La Russa attribuisce al Colonnello la colpa, anzi l’invenzione, “del risentimento libico per il colonialismo italiano”, con tutto il bene che gli abbiamo fatto a quella brava gente.

Berlusconi può ora cavarsela con un classico, ma sbrigativo e, soprattutto, fuori luogo, “Sic transit gloria mundi”, lui che di Gheddafi aveva fatto un grande amico, abbracci, baciamani, genuflessioni e processioni di vergini ai corsi d’Islam del rais. Il latino vale al Cavaliere uno sberleffo di Famiglia Cristiana, “more solito”: “da uno che gli ha baciato l’anello non potevamo aspettarci che una glorificazione in morte”. Una battuta destinata a restare nell’antologia delle frasi celebri e infelici di Mr B, accanto a quella “non gli ho ancora telefonato per non disturbarlo” detta all’inizio dell’insurrezione. Fortuna che, come al solito, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ci mette dignità e misura, “s’è chiusa una pagina drammatica”.

Se Gheddafi non c’è più, l’intreccio di affari tra Italia e Libia resta: il petrolio e il gas dell’Eni, che ha già provveduto da sé a metterseli al sicuro, le partecipazioni in Unicredit, Finmeccanica, Fiat, Juventus e molte altre società, i soldi depositati nelle nostre banche, le oltre cento aziende italiane che operano laggiù. Nessuno può dire che piega prenderà la nuova Libia; ma noi sappiamo per cento che ne saremo amici, anzi che ne vorremo essere i migliori amici.

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