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Opposizioni e quadro regionale

Siria verso la guerra civile?

29 Set 2011 - Giacomo Galeno - Giacomo Galeno

“In Medio Oriente non si può fare la guerra senza l’Egitto e non si può fare la pace senza la Siria” diceva Henry Kissinger, segretario di stato americano negli anni ’70 e noto analista di politica internazionale. “Assistiamo ad un cambiamento di paradigma sotto i nostri occhi”, ha dichiarato un alto responsabile israeliano riferendosi alle relazioni tra Israele e l’Egitto post-Mubarak.

L’Egitto filo-americano è ‘caduto’. Si attende la sorte della Siria filo-iraniana. Cosa sarà di uno dei paesi chiave per gli equilibri mediorientali se il regime baathista, guidato dalla famiglia al-Asad, dovesse cadere o non esistere più per come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi?

Ebollizione
Le opposizioni siriane stanno cercando di dar vita a un Consiglio nazionale che coinvolga tutti coloro (gruppi laici ed islamici, minoranze etniche e religiose) che abbiano l’obiettivo di garantire una transizione democratica pacifica e di scongiurare una guerra civile.

Ma le divisioni interne all’opposizione sono emerse in modo lampante anche a fine agosto, quando a distanza di poco tempo sono sorti la Commissione generale della rivoluzione siriana, composta dall’unione di 44 gruppi rivoluzionari e il Consiglio nazionale siriano di transizione, con sede ad Istanbul, ispirato all’esperienza libica e composto da 94 membri. A presiederlo era stato chiamato, Burhan Ghalioun, docente universitario a Parigi.

Lo scopo di entrambi i gruppi è la costruzione di un fronte unitario delle opposizioni. Il 15 settembre è stato poi formato il Consiglio nazionale siriano (Cns), composto da 140 membri. Il Cns si fonda su un accordo tra le opposizioni basato su tre punti: il proseguimento delle proteste fino alla caduta del regime di Bashar al-Asad, il rifiuto della violenza come strumento di lotta e il mantenimento dell’integrità territoriale della Siria.

All’interno delle opposizioni cresce inoltre il dibattito sull’opportunità di armare o meno le proteste e quale tipo di intervento internazionale sia preferibile (militari o osservatori Onu), nella consapevolezza che la via della violenza, nonostante la guerra di logoramento ingaggiata dal regime, potrebbe giustificare la repressione ed innescare dinamiche incontrollabili.

Isolamento
Damasco continua ad alternare dura repressione a deboli aperture, diventando un interlocutore sempre meno credibile per le opposizioni, ma anche per gli attori internazionali, compresi gli alleati storici, che cominciano a pensare ad un post-Asad.

Alla vigilia del Ramadan, ad Hama, l’esercito siriano è stato responsabile della giornata più sanguinosa dall’inizio delle proteste, provocando tra le 80 e le 100 vittime. Ad una settimana di distanza lo stesso disastro si è ripetuto a Deir ez-Zor.

Questo è costato al regime la prima condanna da parte del Consiglio di sicurezza (Cds) dell’Onu, un crescente isolamento da parte della comunità internazionale, tra cui Usa, Ue, e un gran numero di paesi ed istituzioni politiche e religiose del mondo arabo-musulmano, Arabia Saudita in testa. Ma dure critiche sono giunte anche da parte dei tradizionali alleati della Siria, dalla Turchia, alla Russia per finire, addirittura, all’Iran.

Il 18 agosto il presidente americano Barack Obama ha rotto le prolungate esitazioni chiedendo esplicitamente all’omologo siriano, Bashar al-Asad, di farsi da parte.

Contestualmente Usa ed Ue adottano ulteriori sanzioni – contro le esportazioni di petrolio – e due missioni umanitarie del Consiglio per i diritti umani (Unhrc) e della Croce rossa internazionale hanno visitato il paese. Anche il tentativo di mediazione della Lega araba è risultato inutile. Non è stata scartata neanche l’opzione militare, che però trova la ferma opposizione della Turchia, che starebbe studiando con l’amministrazione Obama una strategia di uscita dalla crisi, e di Iran e Russia, che continuano, almeno ufficialmente, a non mettere in discussione la leadership di al-Asad esigendo però la fine delle violenze e l’avvio di riforme.

Il governo di Teheran starebbe ridefinendo le proprie priorità strategiche in previsione di un prossimo eventuale collasso siriano, guardando all’Iraq. Inoltre l’opposizione siriana avrebbe aperto dei canali di comunicazione con la Repubblica islamica nel tentativo di fugarne i timori riguardo il post-Asad e per esortarla a ritirare il sostegno al regime baathista. Il cambio di rotta del governo turco esplicitato a metà settembre dal premier, Tayyep Erdoğan, durante il discorso di Tripoli, stava invece maturando già da tempo.

Alla Siria resta l’’approccio equilibrato’ della Russia (capofila dei Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) su cui si sono intensificate le pressioni dell’amministrazione Obama e della Francia – per il raggiungimento di un accordo al Consiglio di sicurezza sull’adozione di nuove misure contro il regime siriano – dopo l’annuncio dell’Unchr che il numero delle vittime tra i manifestanti anti-governativi avrebbe raggiunto quota 2.700.

Fare ‘da soli’
In Europa, il presidente francese, Nicolas Sarkozy, con l’appoggio anche dell’ex primo ministro britannico Tony Blair, hanno accennato alla possibilità di un intervento militare mirato a contrastare la minaccia nucleare iraniana, rischiando di mettere Siria e Iran in un unico calderone.

Questi commenti fanno eco alle voci (tra cui quelle di Meir Dagan, ex direttore del Mossad, di Robert Baer, ex agente della Cia,e di Dick Cheney, ex vice-presidente americano) che circolano da gennaio riguardo un possibile attacco preventivo israeliano contro siti nucleari iraniani. L’Iran, da parte sua, ha già informato l’Onu che non esiterà a rispondere a qualsiasi atto di aggressione che minacci il suo territorio.

Comunque vadano le cose, prevale la sensazione di un prossimo profondo rimescolamento delle carte in Siria e Medioriente. All’interno delle opposizioni si sta facendo strada l’idea che i siriani debbano rovesciare da soli il regime. L’intervento internazionale, in un contesto così delicato, dovrebbe ridursi a sanzioni ed osservatori Onu. Resta da capire come le diverse istanze, le rivendicazioni dei manifestanti e le necessità strategiche degli attori regionali ed internazionali, riusciranno a comporsi nella ridefinizione degli equilibri interni al paese.

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