Perché riconoscere lo stato palestinese
La Palestina ha recentemente chiesto alle Nazioni Unite di diventare membro dell’organizzazione ed essere riconosciuta come uno stato sovrano, all’interno dei confini stabiliti nel 1967. Perché ciò avvenga il Consiglio di sicurezza si deve preliminarmente esprimere in senso favorevole, con almeno nove voti e nessun veto. Gli Stati Uniti hanno reso noto che porranno il veto. A meno che non cambino idea, il riconoscimento della Palestina come stato sovrano è perciò escluso.
Nondimeno, l’Assemblea generale, indipendentemente dal Consiglio di sicurezza, può riconoscere la Palestina, come “stato non membro”, cioè lo status che hanno avuto il Vaticano e la Svizzera nella transizione allo status di membro effettivo. Uno status che nei fatti accresce le opzioni della Palestina nell’organizzazione, fino a consentirle di essere rappresentata nelle agenzie specializzate dell’Onu
Incoerenza e declino
La risoluzione dell’Assemblea può anche riconoscere la Palestina come stato a pieno titolo, ma il riconoscimento è valido solo per chi lo ha votato. Il riconoscimento dell’Assemblea è quindi limitato giuridicamente, ma sul piano politico sarebbe certamente un successo. Occorre, tuttavia, aggiungere che neppure il riconoscimento dell’Assemblea è scontato, poiché ci sono degli stati che stanno manifestando incertezza o contrarietà, come alcuni paesi dell’Europa orientale. Quindi, mentre il pieno riconoscimento appare escluso, quello dell’Assemblea è incerto.
Su questo sfondo, il ministro degli esteri italiano Franco Frattini ha dichiarato che il governo non appoggerà la richiesta della Palestina. Anche altri stati dell’Unione europea non l’appoggeranno. L’Ue, invero, ha seguito una linea che storicamente la dovrebbe portare al riconoscimento dello stato palestinese, che va dalla Dichiarazione di Venezia alle risoluzioni approvate dai Consigli europei del dicembre 2009 e 2010.
Non che queste ultime risoluzioni abbiano articolato delle decisioni specifiche in merito, ma il senso generale di quel tanto di politica comunitaria che ne è emersa riconosce il carattere di stato della Palestina, ferme restando tutte le questioni che afferiscono ai rapporti con Israele e la necessità di negoziarle. L’Unione europea andando al voto in ordine sparso darà conferma del suo declino.
Il riconoscimento della Palestina come stato non risolve il conflitto e quindi lascia intatto il negoziato necessario a risolverlo e i suoi più che noti problemi. Non è vero che la mossa palestinese è una mossa unilaterale che mette a rischio il processo di pace (a parte il fatto che il processo di pace è stato definitivamente ucciso dallo sciovinismo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dalla debolezza del presidente Usa Barack Obama). Ovviamente, il carattere di stato che la Palestina assumerebbe, darebbe al governo palestinese più consistenza e autorità nel negoziato.
Rischio intifada
Un negoziato fra due entità statali avrebbe una diversa dinamica e un diverso peso nel contesto della comunità internazionale. Non c’è dubbio che il diffuso sostegno di cui i palestinesi godono nel mondo si consoliderebbe ulteriormente se la Palestina fosse un membro a pieno titolo dell’Onu. Questo maggior peso della Palestina e dell’appoggio alla Palestina da parte della comunità internazionale impedirebbe l’arbitrarietà con la quale Israele ha condotto i rapporti con i palestinesi, senza nulla togliere alle ragioni di Israele e ai suoi obiettivi negoziali.
Che cosa accadrà se la richiesta della Palestina non verrà accolta? Se verrà almeno soddisfatta la richiesta di un accrescimento dello status da parte dell’Assemblea dell’Onu, la dirigenza palestinese avrà spuntato un successo tattico che potrà giocarsi nell’ambito dei rapporti inter-palestinesi. Ma la risposta negativa che il Consiglio di sicurezza si appresta a dare alla loro domanda principale potrebbe avere conseguenze negative nella regione e nei rapporti fra l’Occidente e la regione.
La frustrazione dei palestinesi, ai quali sono stati fatti tanti complimenti per il rafforzamento dello stato intrapreso dal primo ministro del governo di Unità nazionale, Salam Fayyad (su cui le principali testate americane due anni fa scrivevano come fosse l’”uomo della provvidenza”), sarà molto forte. Il potere del presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmud Abbas, si indebolirà ancora di più sia tra i palestinesi che all’esterno, con ovvie ripercussioni nei rapporti con Hamas.
Da molte parti si dice che potrebbe esserci una terza intifada, favorita dalle condizioni di instabilità regionale che prevalgono nel quadro della terribile crisi dell’autoritarismo arabo in corso. Gli stati arabi confinanti con Israele potrebbero strumentalizzare la crisi palestinese per scaricare le tensioni interne, com’è recentemente accaduto al confine fra Israele e Siria. Una terza intifada potrebbe anche essere provocata e guidata dall’esterno. È difficile invece che non accada nulla.
Orme del passato
La primavera o rivolta araba, che come abbiamo appena detto è una crisi profonda dell’autoritarismo arabo, già accenna a tradursi in una rinnovata spinta nazionalista. L’Occidente ha visto le rivolte arabe solo come uno sviluppo interno ai singoli paesi e alcuni – specialmente nella destra israeliana – hanno sottolineato che questo sommovimento mostrava la definitiva obsolescenza strategica della questione palestinese.
In realtà, la rivolta araba non è solo un processo politico interno, ma è uno sviluppo che mette in questione i vecchi equilibri arabi e mediorientali, suscitando nuove forze, ma anche resuscitandone vecchie. Queste forze potrebbero riconsegnare al conflitto israelo-palestinese e a quello israelo-arabo la centralità che aveva perso e la possibilità di venir finalmente risolto, che in un’età che ormai sembra lontanissima era riaffiorata.
L’Italia e l’Unione europea farebbero bene a seguire le orme del loro passato e votare per il riconoscimento della Palestina, impegnandosi contestualmente a svolgere nel negoziato il ruolo che hanno sempre lasciato ai soli Stati Uniti.
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