La ritirata dell’Al Shabaab da Mogadiscio
Non c’è stata alcuna battaglia ad agosto a nord di Mogadiscio. Non è stato l’esercito del governo transitorio somalo, o le forze dell’Unione africana, a scacciare i miliziani dell’Al Shabaab. Se ne sono andati di propria volontà, ordinatamente, caricando le masserizie sui camion e sui pick up, lasciando la capitale verso ovest. Probabilmente verso la provincia di Baidoa. È finita così, almeno per adesso, l’avventura delle milizie islamiche a Mogadiscio.
Crisi dell’Al Shabaab
Mancano ancora numerosi tasselli per spiegare perché le milizie islamiche abbiano lasciato Mogadiscio così frettolosamente. Un quadro complessivo della crisi dell’Al Shabaab può essere comunque tratteggiato.
Va innanzitutto precisato che le milizie islamiche di oggi hanno ben poco da spartire con quelle che nel 2006 dominavano la capitale e che vennero cacciate – temporaneamente – dall’intervento etiope in Somalia.
L’Al Shabaab originario era dominato da alcuni Signori della guerra e faccendieri del porto vecchio di Mogadiscio, che avevano scelto il vessillo dell’Islam per meglio occultare i propri loschi traffici. Tra questi, in particolar modo, spiccava Abukar Omar Addani. Faccendiere della peggior specie, trafficante e vero e proprio dominus, fino al dicembre del 2006, di tutto ciò che entrava ed usciva dai moli del porto vecchio di Mogadiscio. Addani aveva assoldato un giovane fondamentalista, tuttavia, di nome Aden Ashi Ayro, che nel jihad credeva fermamente e che per un certo periodo aveva cercato – e soprattutto sperato – di poter trasformare Mogadiscio nel nuovo avamposto del radicalismo islamico.
Quando nel dicembre del 2006 le forze etiopi entrarono in Somalia e conquistarono rapidamente Mogadiscio e Kisimayo, Addani cercò di fuggire in Kenya e si arrese vigliaccamente al confine meridionale del paese, mentre Ayro si dette alla macchia con un pugno di fedelissimi ed iniziò la sua personale guerra santa.
Seconda generazione
Durò poco la pax etiope, tuttavia, perché la rete di finanziamento al radicalismo islamico, insieme all’Eritrea che occultamente manovrava per la riorganizzazione di alcune cellule delle deposte corti islamiche, riuscì in breve tempo a ricostituire la seconda generazione dell’Al Shabaab.
Questa non era più appannaggio dei somali di Somalia, ma veniva riorganizzata con una nuova leva di somali espatriati di seconda e terza generazione (in larga misura provenienti dagli Usa e dall’Europa) e con jihadisti di varia estrazione e nazionalità, fatti confluire in Somalia per costituire il nuovo avamposto del jihadismo di matrice qaedista in Africa orientale.
Nulla a che vedere col passato, quindi, e ben più rigidamente organizzato della vecchia e sgangherata milizia di Addani, funzionale innanzi tutto al taglieggio delle attività portuali.
Ayro si spostò nella V zona regionale dell’Etiopia, per portare la sua guerra oltre confine nemico, per poi finire ucciso da un missile Tomahawk americano nel 2008 nella città somala di Dhusamareb. Ciò che restava delle vecchie corti islamiche si spaccò in più parti, contrapponendosi e portando addirittura un loro esponente, Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, alla presidenza del governo federale transitorio (Tfg).
L’Al Shabaab tornò invece in forza a Mogadiscio, grazie al costante e generoso sostegno di alcune charities del Golfo, ed ingaggiò una guerra sempre più intensa con le forze del Tfg e con quelle dell’African Union Mission in Somalia (Amisom).
Spaccatura profonda
Nel corso degli ultimi due mesi, tuttavia, qualcosa è cambiato. Prima di tutto si sono progressivamente dissociate dall’Al Shabaab tutte le forze islamiche moderate, o comunque non di ispirazione radicale. In particolar modo hanno manifestato il loro dissenso le numerose, ed assai popolari, organizzazioni sufiche, dimostrando ancora una volta come i somali abbiano un concetto della religione ed un approccio alla stessa assai pragmatico e moderato.
È stato poi ucciso ad un posto di blocco, l’8 giugno scorso, Fazul Abdullah Mohammed, esponente di spicco della rete qaedista in Somalia e attore di primo piano della logistica e dell’organizzazione dell’Al Shabaab. Una perdita incolmabile per le milizie islamiche, che infatti non è stata rimpiazzata.
Al vertice dell’organizzazione islamica c’è oggi Ibrahim Jama Mee’aad, detto l’Afgano, ma la catena di comando è ormai spezzata. All’interno dell’Al Shabaab c’è infatti un gruppo di lealisti che intende condurre con ogni mezzo il jihad, e altri gruppi più o meno eterogenei che non intendono più seguire la linea dura e radicale del vertice e vorrebbero trovare un accordo con il Tfg.
Tra quelli che compongono il primo gruppo, la maggior parte non ha nemmeno un passaporto somalo: sono figli di somali espatriati da due o tre generazioni o stranieri provenienti in massima parte dall’Afghanistan, dal Pakistan e dai paesi del Golfo.
Il secondo gruppo ha invece un radicamento sociale in Somalia, oltre che una linea di appartenenza clanica. Ed è con questo secondo gruppo che, secondo voci alquanto diffuse oggi in Somalia, il presidente Shaikh Sharif Sheikh Ahmed e il portavoce del parlamento Sheikh Sharif Aden, avrebbero stretto una serie di accordi per separarli dalla componente radicale ed integrarli a vario titolo nelle forze vicine al Tfg.
Accordo che è costato il posto all’ex primo ministro Mohamed Abdullahi Mohamed, reo di aver reso noti i termini di quello che ebbe a definire come un vero tradimento.
Disinteresse internazionale
I vertici militari dell’Amisom non hanno condiviso l’entusiasmo del presidente del Tfg. Temono che quella dell’Al Shabaab sia solo una mossa tattica e sono ben consci del fatto che in gran parte della Somalia centro meridionale le milizie islamiche possono ancora contare su un gran numero di uomini e villaggi fedeli.
Sanno anche che le forze militari del Tfg sono mal equipaggiate ed addestrate, oltre che scarsamente motivate, e quindi incapaci di reggere l’urto di una eventuale controffensiva senza il supporto delle truppe dell’Unione africana.
I militari dell’Amisom hanno scarsa fiducia e considerazione del Tfg, ne conoscono la corruzione e l’approssimazione che regna dietro le quinte, e sono ben consapevoli del fatto che il problema Somalia è di difficile, se non impossibile soluzione.
Servirebbe il deciso appoggio della comunità internazionale per far risorgere la Somalia dalle sue ceneri e cercare di normalizzare progressivamente la situazione. Ma la comunità internazionale non mostra alcun interesse per la Somalia, impegnata in altri disastrosi conflitti e memore ancor oggi della cocente sconfitta subita nel 1995 con il fallimento della missione umanitaria internazionale.
Quel che è peggio è che sono gli stessi potentati economici somali, in Kenya e negli Emirati, a non volere in alcun modo una normalizzazione della situazione politica e militare: rischierebbero infatti di perdere il poderoso giro d’affari che solo uno Stato fallito può garantire.
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