Il rebus della pacificazione in Libia
Dopo il vertice convocato a Parigi il 19 marzo dal patron della guerra in Libia, il presidente Sarkozy, per dare avvio ufficiale alle operazioni militari (già in corso da parte francese sin dalla notte precedente), il primo settembre si è concluso, sempre a Parigi, anche il secondo vertice, quello per celebrare la vittoria, nonostante gli ultimi combattimenti tra ribelli e lealisti siano tuttora in corso.
Ma che Sarkozy per la Libia anticipi sempre i tempi è cosa ormai nota. Per quanto riguarda il nostro paese, storicamente questi vertici d’oltralpe – vuoi a Parigi, vuoi a Versailles – non ci hanno mai portato molta fortuna. Ricordiamo solo la “vittoria tradita” della prima guerra mondiale e le mutilazioni coloniali e metropolitane conseguenti la sconfitta nella seconda.
La risoluzione del Consiglio 1973 – esiziale per Gheddafi – per alcuni è stata provvidenziale e per altri ancora, noi fra questi, un fastidioso disturbo. Il successivo vertice parigino di marzo per molti era stato un vero e proprio trabocchetto, dal quale solo Angela Merkel, come già al Palazzo di Vetro, è riuscita a sottrarsi. Molti altri avrebbero voluto farlo, Stati Uniti compresi, se il velleitarismo di Sarkozy e di Cameron – i due interventisti della prima ora – non avesse costretto tutti (o quasi) a salire su quella tradotta del politicamente corretto – al grido umanitario di “salviamo i civili!” – dalla quale, notoriamente, è poi impossibile scendere.
Conferenza dei sessanta
Se il vertice di marzo era stato una “trappola”, quello del primo settembre passa, più elegantemente, per “il vertice della vanità”. Ma, ora che tutti assieme abbiamo vinto una non-guerra che solo un paio volevano – e i sessanta paesi invitati almeno su questo concordano – potremmo accorgerci di aver vinto (quasi) una di quelle guerre che, dopo la vittoria, di solito si perpetuano molto a lungo. Di esempi ne abbiamo già avuti, e questo non sarà l’ultimo.
Di questo vertice, da stampa e televisione – impegnate a commentare la crisi economica – abbiamo avuto notizie assai scarse, anche perché assai scarso è stato il contenuto. Gli italiani, costretti da circostanze sfavorevoli a scendere progressivamente in campo, armi in pugno, contro i propri interessi nazionali, avrebbero voluto sentire qualcosa in più. Capire anche il vero “perché” di questa non-guerra, che nessuno ci ha ancora spiegato, visto che nonostante le perplessità iniziali i nostri caccia-bombardieri, assieme agli alleati, per “salvare i civili” – come ci continua a raccontare imperterrita la portavoce della Nato – da svariati mesi distruggono obiettivi in Libia.
L’intervento umanitario richiesto dall’Onu non prevedeva il regime change o l’uccisione di Gheddafi, e il suo prematuro deferimento al Tribunale penale internazionale non ne facilita certo l’uscita di scena. Senza di questo, ogni passo verso il processo di pacificazione interna – se mai ci potrà essere – è del tutto illusorio. Secondo alcuni commentatori la pacificazione rimane impossibile senza l’intervento sul territorio di una forza di pace.
Nella bozza del documento finale di Parigi la proposta, voluta e sostenuta dalla Francia, di dare avvio ad una concreta procedura di peacekeeping era tra parentesi quadre, che in gergo diplomatico significa senza accordo preliminare, e tale è rimasta anche dopo gli interventi finali. Prima di tutto perché dal Consiglio nazionale transitorio (Cnt) – che ora anche la Russia riconosce e di cui la Cina prende atto – è arrivato, non inaspettato, un secco “no”. In secondo luogo perché ogni altra soluzione, in assenza di una richiesta ufficiale del Cnt, che seguendo l’esempio francese tutti si sono affrettati a riconoscere, è e rimane solo un rompicapo.
Un paradosso e qualche rischio
Siamo al paradosso che, dopo il non indifferente sforzo per vincere, non sappiamo cosa fare della vittoria, né possiamo tranquillizzarci nell’illusorio presupposto che la questione interna libica si risolva da sé, magari in tempi brevi.
È un riconoscimento che la partita con Gheddafi e la vasta porzione di territorio ancora a lui fedele – specie al sud – non sia definitivamente chiusa. Certo, il suo regime non esiste più, e questo è un primo risultato positivo. Ciò consente oggi, alla coalizione che ha sostenuto il Cnt, di rivendicare la bontà della propria scelta – come spiega dubitativamente Enrico Singer su Liberal – assicurando la continuità dell’appoggio al nuovo potere, promettendo fondi per la ricostruzione, insistendo perché la transizione verso la democrazia sia velocizzata con l’adozione di una carta costituzionale e di libere elezioni – il Cnt ne avrebbe già previsto i tempi – e senza vendette personali.
I meno ottimisti, che al momento sono in maggioranza, intravedono per il futuro molti rischi e molti inganni, da ogni parte. Il rischio maggiore, secondo alcuni, sarebbe l’illusione di rinnovare un condominio franco-britannico nel Mediterraneo, già fallito in passato. Ricordiamo Suez, nel 1956. Anche la presa di distanza di Erdoğan, che non ha partecipato personalmente alla conferenza di Parigi, è una critica esplicita della Turchia all’Europa e soprattutto alla Francia. Anche ciò non è confortante.
Altri, sebbene si continui a sottolineare che ogni soluzione debba essere politica prima ancora che economica, ricordano che già all’inizio di aprile il Cnt si impegnava con Qatar e Francia, garantendo loro il 35 per cento del totale dei contratti petroliferi. Le smentite dei francesi sono poco convincenti.
D’altra parte, ricordano anche che nel 1969 il “capitano” Gheddafi rassicurava inglesi, americani e italiani che ogni impegno con Re Idris sarebbe stato mantenuto, esattamente come fa ora il Cnt. Per poi cambiare idea l’anno successivo, cacciando via tutti, con armi e bagagli. Da ultimo interviene l’analista americano Edward Luttwak, che ritiene la democrazia sostanziamente incompatibile con il sistema tribale libico, elemento che ne impedirà anche la riunificazione, e il prevalere, alla distanza, delle organizzazioni estremiste.
Seguendo Sarkozy e Cameron, potremmo aver combinato un bel pasticcio. Staremo a vedere, cercando di limitare i danni. Almeno i nostri.
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