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Libia

Scenari per il dopo Gheddafi

26 Ago 2011 - Vincenzo Camporini - Vincenzo Camporini

Non ci sono dubbi che la parabola politica di Gheddafi sia alla fine. Il che non significa, però, che il nebuloso futuro non debba fare ancora i conti con lui e, soprattutto, con quella parte consistente della popolazione libica che per motivi tribali, oltre che di interesse diretto, lo ha sostenuto in tutti questi mesi di operazioni militari. Ben al di là di quanto i leader politici occidentali, e gli stessi analisti strategici, si aspettavano.

La confusione che regna tuttora a Tripoli, dove sacche di resistenza dei lealisti continuano a operare, e l’evidenza che il controllo del territorio libico è lungi dall’essere completo, delineano uno scenario che può destare qualche preoccupazione. O, meglio, che necessita di attenzione continua e vigilante da parte di chi, in occidente, si è lanciato a febbraio in un’impresa che, nelle intenzioni, doveva durare pochi giorni. Ma che invece, a causa del suo protrarsi, in taluni momenti ha visto anche l’emergere di crepe e distinguo importanti all’interno della stessa casa dell’Alleanza Atlantica.

Controllo del territorio
Per la parte del paese ‘liberata’, il controllo del territorio rimane saldamente nelle mani delle popolazioni che vi risiedono: la Cirenaica appare prevalentemente tranquilla e costituisce, in qualche modo, la legittimazione stessa delle azioni del gruppo di Bengasi.

Le regioni berbere, che in una fase iniziale avevano assunto un atteggiamento sostanzialmente neutrale, consentendo alle forze di Gheddafi di utilizzare a lungo i canali di rifornimento logistico, si sono decise ad appoggiare la rivolta. Ma è chiaro, anche in questo caso, che il controllo rimane di tipo locale e tribale, e che la decisione di intervenire è dovuta con ogni probabilità alla volontà di sedersi al tavolo dei vincitori a pieno titolo al fine di determinare i futuri assetti istituzionali.

Rimane ancora un’ampia porzione dello sconfinato territorio libico che può offrire opportunità a Gheddafi e alla sua parte per poter affermare di non essere stato ancora debellato: il lancio di missili Scud di qualche giorno fa da qualche postazione nella Sirte ne è una dimostrazione lampante.

Lo Scud non è un’arma che si possa lanciare con le modalità del cecchino, nascosto dietro l’angolo di una capanna. Si tratta di un missile lungo più di dieci metri, del peso di circa sei tonnellate, montato su lanciatori autocarrati denominati Tel (trasportatore/elevatore/lanciatore), che per l’utilizzo necessita di un’organizzazione tecnico-logistica, che presuppone a sua volta il controllo pieno e indiscusso di un’ampia fascia di territorio.

Non si dimentichi inoltre tutta la parte desertica incentrata su Sheba, nel sud del paese, dove il Colonnello gode di forte sostegno, agevolato anche dalle popolazioni del vicino Chad, a lungo considerato da Gheddafi una sorta di proprio protettorato.

Situazione complessa, dunque, in cui giocheranno un ruolo importante, per non dire fondamentale, i numerosi abitanti di Tripoli, che non accetteranno di essere marginalizzati da Bengasi e che proprio nell’instabilità del contesto urbano, ancora caratterizzato da scontri e combattimenti più che sporadici, potranno trovare le ragioni da far valere domani a un tavolo di negoziati.

Assetti futuri
Come tante altre realtà, la Libia di oggi, più che il risultato di un processo storico di aggregazione e consolidamento, nasce dalle spartizioni del territorio tra le potenze coloniali. La stessa gestione da parte del Regno d’Italia ha visto per molti anni una netta distinzione tra Cirenaica e Tripolitania e dopo la sconfitta delle truppe dell’Asse, la stessa amministrazione francese occupante ha riconosciuto per un certo periodo una sorta di autonomia del Fezzan.

Un frazionamento dell’attuale Libia in diverse componenti è nel pieno interesse della comunità internazionale. È altrettanto ovvio, tuttavia, che non potrà riproporsi un modello in cui una delle componenti, per quanto titolata, si ponga in posizione egemone. La soluzione più desiderabile può essere caratterizzata da forti autonomie, con una direzione centrale, che potrebbe anche essere a rotazione tra le varie componenti, che costituisca l’interlocutore per la comunità internazionale. Una soluzione di questo tipo, per la quale in Libia una classe dirigente si può certamente aggregare, consentirebbe ai libici anche uno sfruttamento ottimale delle immense risorse derivanti dalla rendita petrolifera.

Ruolo dell’Occidente
Un’ultima annotazione per quanto attiene al campo occidentale. Lasciando da parte le modalità di avvio dell’operazione, che ancora lasciano stupefatti per la determinazione con cui un paese ha perseguito i propri interessi nazionali, trascinando altri più o meno convinti circa l’opportunità dell’uso della forza, ancorché legittimata da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Ci si attenderebbe ora che le problematiche venissero ricondotte in un alveo naturale, quale quello dell’Unione europea; invece si procede con metodi che assomigliano più a quelli del concerto di potenze di ottocentesca memoria. Infatti l’iniziativa di convocare una conferenza sul futuro della Libia non è stata presa dal Presidente del Consiglio europeo Herman Von Rompuy, né dall’Alto rappresentante Carherine Ashton o dalla Polonia, che detiene la presidenza semestrale dell’Unione.

Il rischio è dunque che in questo strisciante processo di rinazionalizzazione delle politiche estere, con buona pace della Cefp e di tutte le altre simili sigle con cui era stato designato l’accidentato percorso dell’azione esterna dell’Unione, ognuno giochi una sua partita per meschini interessi nazionali (e interni) di corto periodo, facendo venir meno quella solidarietà occidentale che da sola può costituire un potente stimolo per la nascente dirigenza libica a presentarsi compatta ai nuovi appuntamenti. In questa vicenda vedremo presto chi saranno i vincitori, ma già conosciamo chi è stato il principale perdente: l’Unione europea.

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