IAI
Italia e Consiglio di sicurezza

Una strategia per la riforma dell’Onu

16 Lug 2011 - Fabio Sokolowicz - Fabio Sokolowicz

Per riformare il Consiglio di sicurezza (CdS) dell’Onu è necessario cambiare la sua composizione. Istituito, con l’Onu, nell’immediato dopoguerra, il Consiglio non cambia forma dal 1965, quando da 11 membri passò agli attuali 15: cinque permanenti (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, Usa), con diritto di veto, e dieci non permanenti, eletti dall’Assemblea generale (Ag) ogni due anni.

Fronti contrapposti
Varie ipotesi di riforma sono in discussione: il gruppo dei cosi detti G4 – Brasile, Germania, Giappone e India – vorrebbe quattro seggi permanenti (per ognuno dei quattro promotori del gruppo) senza diritto veto (aspirare anche al veto finirebbe per incoraggiare l’opposizione degli attuali cinque membri permanenti).

Il gruppo dei paesi africani, che è il più numeroso all’Onu, rivendica per sé due seggi permanenti con diritto di veto.

Il movimento Uniting for Consensus (UfC), di cui l’Italia è tra i principali promotori e che conta, tra gli altri, l’Argentina, il Canada, la Corea del Sud, il Messico, la Spagna e la Turchia, chiede invece di allargare il Consiglio solo a seggi non permanenti rinnovabili periodicamente. E propone – è una delle novità contenute nella piattaforma presentata dall’Italia nel 2009 per conto di UfC – di dare maggiore voce in CdS alle organizzazioni regionali, a cominciare dall’Ue.

I G4 aspirano a seggi permanenti come sigillo di un presunto ruolo di “grandi potenze”. La richiesta africana di avere maggiore voce cela anche le ambizioni di potenze in ascesa (innanzitutto Sud Africa e Nigeria); alle cui aspirazioni si contrappongono, però, altri Stati del continente.

Per i paesi vicini a UfC, infine, la creazione di nuovi seggi permanenti non risponde efficacemente alle trasformazioni della gerarchia internazionale in corso, dove gli attori emergenti sono più dei quattro “grandi pretendenti”. Gli effetti di questa soluzione, per altro, sarebbero potenzialmente dirompenti: un seggio permanente alla Germania (che si aggiungerebbe a quelli di Francia e Regno Unito) affosserebbe le prospettive di un seggio unico dell’Ue, cui punta la diplomazia europea. Un seggio permanente al Brasile sarebbe fonte di tensioni con gli altri grandi vicini del continente latino-americano, e così via.

Da anni i governi discutono con animosità di chi deve entrare o rimanere fuori dal Consiglio riformato. Trovato l’accordo su questo punto, però, si potrebbe amaramente scoprire che, in realtà, nulla è cambiato.

Potere di veto
Molto dipenderà, infatti, dalla riforma delle regole di funzionamento del Consiglio. Cominciando dal potere di veto. Dal 1946 ad oggi il veto è stato utilizzato oltre 260 volte. Ma è solo la punta di un iceberg: la mera minaccia di un veto è continuamente causa di congelamento di discussioni in Consiglio (al Palazzo di Vetro viene definito “veto nascosto”).

Molti dossier non vengono neppure inclusi all’ordine del giorno del CdS per questa ragione. La Carta dell’Onu ha attribuito tale privilegio ai 5 “grandi” vincitori della seconda guerra mondiale per riconoscere loro uno status diverso; una specie di “fattoria degli animali” di orwelliana memoria, dove “alcuni animali sono più uguali di altri”, creata per assicurare che le nuove “super potenze” accettassero di vincolarsi al nascente sistema Onu. Il veto, effettivo o “nascosto”, è in pratica la spada di Damocle che pende sul processo decisionale del Consiglio.

La modifica della Carta dell’Onu necessita del consenso di almeno due terzi dell’Assemblea generale e la ratifica di due terzi dei membri delle Nazioni Unite, ivi inclusi “tutti i membri permanenti” (art. 108). I “P5” (ovvero permanent five, come vengono chiamati all’Onu) hanno cioè un diritto di veto anche sulla riforma del veto stesso.

Non è però fuori luogo immaginare di limitarne la portata. Per esempio, chiedendo l’impegno ai titolari di non usarlo in caso di genocidio o di crimini contro l’umanità; o anche obbligando chi oppone un veto a riferire in Assemblea generale. La proposta italiana ipotizza di circoscriverne l’uso, attualmente quasi illimitato, solo alle azioni relative a minacce o violazioni della pace (il Capitolo VII della Carta); e di modificare le maggioranze qualificate richieste per adottare decisioni.

Convitato di pietra
Non vi è dubbio che i membri permanenti si opporrebbero; e che alcune di queste soluzioni potrebbero rivelarsi inefficaci. Se davanti a un genocidio un membro permanente continuasse a fare uso del veto, sostenendo che di genocidio, in realtà, non si tratta, chi potrebbe stabilire il contrario?

Le formule sul tavolo, però, sono numerose e, talvolta, sostenute da un amplissimo numero di stati. In qualche caso, appoggiate, per lo meno a titolo personale, persino da autorevolissimi esponenti dell’amministrazione americana.

La riforma che nel 1965 ampliò il Consiglio, dovette attendere proprio per l’iniziale contrarietà di alcuni membri permanenti. Se una vasta maggioranza dell’Assemblea generale trovasse un accordo su alcune limitazioni al veto, la pressione sui membri permanenti sarebbe crescente. Alla fine, potrebbero esser costretti a scendere a patti.

Metodi di lavoro
Insieme al veto, è essenziale riformare i metodi di lavoro. Lo chiedono, tra gli altri, gli stati più piccoli (sotto il milione di abitanti), pari a circa un quarto dei 192 paesi membri dell’Onu. E lo propone l’Italia nella sua piattaforma.

Uno dei maggiori limiti del CdS è la scarsa accessibilità. Ci sono dieci seggi elettivi. Ma, ad oggi, oltre 70 paesi (cioè più di un terzo del totale) non sono riusciti a farsi eleggere in Consiglio neppure una volta. Le piccole isole-Stato del Pacifico che rischiano di inabissarsi con il surriscaldamento del pianeta, ad esempio, hanno tutto l’interesse a fare sentire la loro voce in Consiglio.

La riforma dei metodi di lavoro mira ad aprire il CdS a chi non ne fa parte e compensare, in parte, il deficit di rappresentanza e legittimità. Un gruppo di lavoro istituito nel CdS per studiare come migliorare i metodi di lavoro ha raccolto in un recente documento dettagliate proposte (Nota S/2010/507) su, per esempio, maggiore accesso per gli stati non membri del Consiglio alle periodiche informative; più consultazione diretta con il Consiglio stesso; maggiori possibilità di interazione con l’Assemblea generale.

L’obiettivo è anche rendere il CdS più efficiente, attraverso formati più flessibili, che consentano al Consiglio stesso di avere scambi informali con la società civile e le Organizzazioni non governative (Ong); tramite relazioni più articolate con gli stati coinvolti in missioni di mantenimento della pace; con una migliore articolazione dell’agenda dei lavori, della documentazione, dei rapporti con gli organi sussidiari.

Regole del gioco
Secondo alcuni, in alcuni momenti cruciali degli ultimi sessant’anni il Consiglio di Sicurezza è stato soprattutto un forum permanente a disposizione della diplomazia delle grandi potenze. Non è poco: gli ambasciatori dei cosiddetti “grandi” sono in grado di riunirsi immediatamente all’insorgere di un’emergenza. Durante la crisi missilistica di Cuba nel 1962, per esempio, le prolungate discussioni in CdS diminuirono la possibilità di azioni avventate. In molte situazioni critiche l’esistenza del Consiglio ha evitato rischi di malintesi o cattiva comunicazione.

Il CdS, però, può fare anche di più quando riesce a imporsi con misure vincolanti. La riforma dei meccanismi di funzionamento mira a rafforzare questa capacità.

La diatriba sull’accesso alla stanza dei bottoni tradisce spesso una battaglia di status. Non vi è dubbio che riformare la composizione del CdS è essenziale per traghettarlo nel XXI secolo. Senza una parallela riforma nei meccanismi di funzionamento, però, il suo impatto sulla realtà internazionale rischia di restare immutato, a prescindere da chi siederà attorno al suo tavolo. Avremmo solo un CdS più affollato e, per questo, ancora meno funzionante.

La rosa di giocatori e le loro caratteristiche, in altre parole, è la precondizione per ottenere buoni risultati. Ma se gli schemi non verranno anch’essi profondamente aggiornati, la squadra potrebbe non migliorare le prestazioni. E rischierà di ripetere gli insuccessi delle passate stagioni.

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