Scontro sull’energia tra Libano e Israele
Tra le tante dispute sulle frontiere e i confini marittimi che animano il Mediterraneo, se ne sta facendo strada una che sembra travalicare i limiti di un semplice contenzioso. Israele e Libano si confrontano infatti sui confini delle rispettive aree extraterritoriali di piattaforma continentale con toni molto accessi. Al di là della semplice acquisizione di aree di giurisdizione nazionale, la posta in gioco è lo sfruttamento di ingenti giacimenti di gas e di petrolio, tra i quali vi è il gigantesco “Leviathan” ricadente a cavallo di una frontiera contestata, le cui riserve di gas sono stimate in quantità tale da poter concorrere a soddisfare il fabbisogno europeo.
I due contendenti hanno già cominciato a fare le loro mosse senza tuttavia confrontarsi direttamente. Israele dichiara che la questione dell’approvvigionamento energetico concerne la propria sicurezza nazionale, equiparando ad un’aggressione qualsiasi minaccia agli impianti di estrazione. Il Libano, nel richiede alle Nazioni Unite di svolgere un inedito ruolo di prevenzione della crisi, ha anch’esso evocato la questione della propria integrità territoriale.
Gli Stati Uniti invitano le due parti alla moderazione, tentando la via del negoziato. Sullo sfondo vi è Cipro, che ha già concluso accordi di delimitazione prima con il Libano (che questi ora contesta) e poi con Israele.
Rilevante anche la posizione della Turchia che avversa la creazione di nuove zone economiche esclusive (Zee) nel Mediterraneo orientale senza il coinvolgimento dell’autoproclamata Repubblica di Cipro del Nord, oltre ad aver ridotto le relazioni con Israele. La partita è dunque complessa, ma può ancora essere ricondotta, al di là delle apparenze, nell’ambito delle questioni risolvibili sul piano giuridico oltre che economico.
Ipotetici confini del Mediterraneo orientale. In rosso la linea contestata (fonte swissinfo).
Principi applicabili
Nonostante la disputa venga riferita alla zona economica esclusiva (Zee), essa concerne in realtà l’area di piattaforma continentale dei due paesi. Questa si estende sul fondo del mare dal limite esterno delle acque territoriali (il cui confine tra Libano ed Israele è anch’esso oggetto di contenzioso) sino al confine stabilito per accordo con gli Stati frontisti o, in mancanza, sino al limite stabilito da uno Stato a titolo provvisorio secondo principi equitativi. È infatti sulla piattaforma continentale che gli Stati godono di diritti sovrani di esplorazione e sfruttamento delle risorse naturali (in primis idrocarburi liquidi, gassosi ed idrogenati) che ad essi appartengono di diritto senza dover essere proclamati.
Diverso il caso della massa d’acqua sovrastante la piattaforma, e cioè la Zee inerente principalmente alle risorse ittiche ed alla protezione ambientale, la cui esistenza presuppone un atto istitutivo. Piattaforma e Zee non devono necessariamente coesistere, ma i loro rispettivi limiti possono coincidere. Una volta delimitata una Zee il relativo confine si applica quindi, a meno di diversa disposizione, al sottostante fondale. Mentre però è facile stabilire un confine di una Zee dopo aver deciso a chi spetti gestire la pesca e l’ambiente, non altrettanto avviene per i giacimenti sottomarini, che normalmente si estendono da entrambi i lati. Secondo alcuni vigerebbe il principio del “diritto di cattura” che assegna al primo arrivato l’intero giacimento.
Ma il rispetto della buona fede porterebbe ad astenersi da una tale appropriazione in attesa di pervenire ad un’equa spartizione. Il che hanno fatto Norvegia e Russia nell’Artico adottando una decennale moratoria. È possibile che uno Stato ricorra alla forza per contrastare attività di sfruttamento in aree contestate? La memoria va subito a quell’episodio del 1980 in cui i libici intimarono ai maltesi, minacciando il ricorso alle armi, di sospendere le trivellazioni nel Banco di Medina. La recente giurisprudenza internazionale afferma però l’illegittimità di simili comportamenti di uso sproporzionato della forza, richiedendo invece l’apertura di un negoziato.
Mosse e contromosse
Stranamente era stato il Libano a muoversi per primo concordando con Cipro, nel 2007, il confine della Zee mediante sei punti, dei quali l’1 il più meridionale. Non aveva tuttavia dato corso a prospezioni, non avendo tra l’altro norme interne dedicate a licenze estrattive. Né aveva, a differenza di Cipro, ratificato l’accordo. Ma anzi aveva stabilito unilateralmente nel 2010 una frontiera marittima adiacente ad Israele, il cui punto terminale (il 23) ricade 17 km a sud ovest di tale punto 1. La circostanza si è chiarita lo scorso 20 giugno, quando il Libano ha depositato alle Nazioni Unite una lettera indirizzata al Segretario generale, in cui si afferma che lo stesso punto 1 non è vincolante per il Libano, non avendo valore di punto triplo con Israele e Cipro.
Israele, per parte sua, è uscita allo scoperto nel dicembre 2010, quando ha annunciato di aver stabilito con Cipro il limite delle rispettive Zee con una linea mediana il cui punto iniziale coincide con il punto 1 dell’accordo 2007 tra Libano e Cipro, nonostante sia ormai noto che esso è contestato dal Libano. Per non prestare acquiescenza alle rivendicazioni libanesi, lo scorso 12 luglio Israele ha anzi depositato alle Nazioni Unite una lista di coordinate geografiche per la delimitazione della parte nord della propria Zee, che riafferma la valenza di tale punto 1, pur lasciando aperta la porta a future modifiche a seguito di intese con stati terzi.
Posta in gioco
Israele si è lanciata da tempo nella ricerca mineraria sulla propria piattaforma, già prima di fissarne con precisione i limiti, individuando vari ed estesi giacimenti di gas, primo tra tutti il grande “Leviathan” che alla distanza di 130 km da Haifa va ad incunearsi nelle vicine piattaforme di Cipro e Libano. L’attivismo energetico di Israele trova giustificazione nelle minacce derivanti da atti terroristici come i quattro attentati al gasdotto del Canale che hanno interrotto il flusso di gas dall’Egitto e lascia intravedere la costruzione di futuri gasdotti verso l’Europa attraverso Cipro e la Grecia.
Ma anche il Libano si aspetta di ricevere finalmente un sostegno alla propria disastrata economia. Nonostante abbia dato incarico ad una società norvegese di iniziare prospezioni e si avvalga anche a questo fine dell’assistenza dell’Iran, il Libano non ha ancora evidenza – tranne che per l’area di confine con Israele e Cipro – di dove e quali siano le sue riserve. Certo non è pensabile che l’unico giacimento libanese ricada nella zona contestata, anche perché essa è un triangolo di appena 850 kilometri quadrati che è una piccola porzione dell’intera piattaforma libanese.
L’area oggetto della disputa (fonte “The Daily Star Lebanon”).
Possibile intesa
L’accordo stipulato da Cipro e Israele contiene due clausole rilevanti: la prima relativa allo sfruttamento congiunto (detto “unitization”) dei giacimenti a cavallo; la seconda riguardante la possibilità di modificare in futuro i punti tripli di interesse di altri Stati. Queste previsioni sono perfettamente in linea con il diritto internazionale e, se applicate nei confronti del Libano, eviterebbero l’aggravarsi di un contenzioso alla cui soluzione potrebbe lavorare attivamente anche Cipro quale Stato frontista di entrambi i contendenti. Un’iniziativa cipriota potrebbe prevedere, ad esempio, la richiesta ad altro Stato non sgradito ad Israele e Libano (Stati Uniti, Norvegia, Italia?) di condurre uno studio cartografico per stabilire quale sia il punto triplo realmente equidistante dalle coste interessate.
Nel frattempo Israele e Libano (che, non dimentichiamolo, sono in guerra) potrebbero unilateralmente considerare l’area contestata come “zona cuscinetto” stabilendo al suo interno una moratoria. Ben difficilmente, infatti, una società petrolifera vorrebbe essere coinvolta in un casus belli come quello occorso all’italiana Saipem sul Banco di Medina. La verità è che la disputa tra i due paesi, che ha vari precedenti in diritto internazionale, riveste in sé un’importanza marginale.
Rilevante è invece, per entrambi, contemperare equamente i reciproci interessi economici comportandosi secondo buona fede. Il loro costante dialogo con le Nazioni Unite è senz’altro indice di una corretta percezione giuridica della vicenda, ed è un fatto positivo che potrebbe anche portare ad una soluzione conciliativa. Se non ci sarà a breve un raffreddamento della tensione occorre quanto meno che si stabilisca un modus vivendi di fatto che non pregiudichi le reciproche posizioni. In fondo, Russia e Norvegia hanno dovuto attendere più di trent’anni prima di raggiungere l’intesa dell’Artico.
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