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Estremo oriente

Lotta per l’egemonia nel mar cinese meridionale

12 Lug 2011 - Stefano Felician - Stefano Felician

Negli ultimi mesi il vasto mar cinese meridionale, una parte di oceano pacifico che lambisce le coste di molti paesi dell’estremo oriente (fra cui Cina, Vietnam, Filippine e Malesia), è divenuto il “pomo della discordia” fra gli stati rivieraschi. A questi contendenti si aggiunge poi l’ombra degli Stati Uniti, che non hanno territori nella zona, ma che non gradirebbero essere estromessi dalla regione.

Questa parte di oceano, geograficamente circondata da stretti alquanto ridotti (come quello di Malacca o le molte isole filippine) negli ultimi anni è diventata un corridoio strategico per i molti paesi che vi si affacciano: ciò vale in particolare per la Cina e per il cospicuo traffico navale che arriva e parte dall’erede del Celeste Impero.

Sul mar cinese meridionale insistono quindi molti interessi di tipo economico, politico e militare, senza contare questioni di status spesso accese o rinfocolate dal nazionalismo.

Economia e energia
Il primo profilo, quello economico, si spiega non solo con la necessità di impedire qualsiasi limite alla circolazione in queste acque (che avrebbe contraccolpi notevoli per i paesi rivieraschi), ma anche con la ormai storica contesa riguardo alle isole Parcels e Spratly. La necessità di impedire che qualcuno possa “chiudere” il mar cinese meridionale è un imperativo per la Cina, che da poco ha identificato quest’area come “strategica”. Pechino vuole evitare che il costante traffico marittimo che garantisce la sua sostenuta economia possa essere in qualche modo interrotto, diminuito o solo condizionato.

Un secondo capitolo è quello delle piccole isolette Paracels (situate nel nord del mare, vicino a Cina e Vietnam) e le Spratly, vicine a Filippine, Brunei e Malesia. Queste isole (che sono in realtà poco più che affioramenti di terra dal mare) hanno delle superfici trascurabili e possono ospitare, per le loro dimensioni, pochissime persone: il vero motivo di interesse sono le ben più ricche risorse marine (ittiche) e sottomarine, soprattutto per gli idrocarburi. La partita per queste isole si gioca quindi intorno all’energia, perché controllarle significherebbe automaticamente poterne sfruttare le acque ed il sottosuolo, escludendone gli altri.

Nodi politici
La contesa aperta nel mar cinese meridionale finisce per influenzare anche la sfera politica. A sostenere le mire dei vari governi contribuiscono questioni di sicurezza nazionale, la storia, la geografia e altri elementi che, usati ad arte, giustificano le posizioni dell’uno escludendo quelle degli altri. La potenza regionale è naturalmente la Cina, che ha tutto l’interesse a non cedere le sue pretese che definisce “storiche”, e radicate in migliaia di anni di influenza sull’area.

La storia serve quindi a giustificare le mire di Pechino e a ribadire la sua primazia sui vicini. Il Vietnam ha sempre rifiutato le pretese cinesi, sostenendo che queste sono solo recenti, mentre Hanoi rivendica diversi secoli di presenza. Il Vietnam, che si scontrò con la Cina nel 1979, non è più un paese agricolo ferito dai terribili anni dell’omonima guerra. La recente apertura del sistema economico, pur sempre controllata dal Partito Comunista, ha permesso all’economia nazionale di crescere molto, aumentando contestualmente la necessità di vedersi riconosciuta nel mare quell’influenza che già esercita verso ovest, su Laos e Cambogia.

Nelle scorse settimane ad Hanoi vi sono state delle manifestazioni di piazza che scandivano violenti slogan contro la Cina e il suo “nazionalismo”. Le Filippine sono più interessate alle Spratly, e giustificano la loro presenza con la innegabile prossimità geografica alle stesse; contemporaneamente desiderano limitare l’espansione della Cina nelle acque a loro vicine. Inoltre le Filippine, ex colonia americana, sono nettamente più vicine alle posizioni statunitensi.

Restano infine i casi di Taiwan, della Malesia e del Brunei, tutti interessati a ottenere una quota (o almeno a non “abbandonarla” ad altri) nella contesa per le varie isole. Gli Stati Uniti, infine, hanno dei rapporti particolari con alcuni tradizionali alleati nell’aera, e non vedono di buon occhio la crescita di nuove potenze che possano contrastare i loro interessi; in particolare le relazioni con il Vietnam sono molto migliorate, mentre a Washington preoccupa molto l’espansionismo cinese.

Competizione militare
Negli ultimi mesi la contesa per il mar cinese meridionale si è saldata ad un generale incremento di insicurezza che pervade l’estremo oriente. C’è una sorta di “arco di tensione” che parte dalla penisola coreana (che nel 2010 ha visto due attacchi della Corea del Nord contro il Sud), passa per Taiwan (la “provincia ribelle” di Pechino) e giunge nel cuore del mar cinese meridionale. Il controllo di un tratto di oceano così vasto, e privo di punti d’appoggio come isole o terraferma, richiede una marina cosiddetta “blue water”, cioè capace di proiezione anche lontano dalle installazioni di terra.

La potenza in questo settore sono naturalmente gli Stati Uniti, che hanno a disposizione del Uspacom (US Pacific Command, il comando Usa che sovrintende l’area Pacifica) alcune portaerei; per contrastare o, quantomeno, per essere al livello americano è necessario incrementare le proprie forze marittime. Questa è la strada che sta seguendo la Cina, che ha recentemente rivelato diversi dettagli sulla sua prima portaerei, la ex nave sovietica Varyag. L’ingresso nella flotta cinese di questa unità, previsto in tempi brevi (non ci sono date ufficiali) sicuramente disturberà molti degli stati vicini.

A ciò si aggiunge poi una recente presenza sommergibilistica di Pechino, grazie anche alla strategica base sull’isola di Hainan, nel nord del mar cinese meridionale. Nelle scorse settimane una nave cinese si dice abbia tagliato dei cavi di una nave vietnamita che stava facendo indagini geologiche: ne è sorta un’aspra contesa, e una serie di esercitazioni navali che hanno esacerbato gli animi dei vari stati.

In particolare gli Stati Uniti fra fine giugno e inizio luglio hanno svolto delle esercitazioni militari comuni con le Filippine. Nonostante il governo di Pechino abbia dichiarato l’intenzione di non usare la forza, il moltiplicarsi delle esercitazioni e delle spedizioni navali, oltre a complicare il quadro politico-militare, potrebbe pure condurre ad un incremento delle spese militari.

Quali soluzioni?
La questione del mar cinese meridionale è un problema aperto ormai da molti anni; tuttavia la crescita economica di molti paesi rivieraschi oggi gli consente di mettere in campo delle tecnologie (anche militari) per cercare di accaparrarsi le preziose risorse, soddisfando nel contempo anche le relative spinte nazionaliste.

Una soluzione potrebbe forse essere quella di ricorrere all’organizzazione regionale Asean (Associazione delle nazioni dell’Asia sud-orientale), anche se sembra che gli sforzi finora effettuati siano stati poco produttivi. D’altro canto è difficile immaginare un conflitto su vasta scala nell’area, perché avrebbe conseguenze catastrofiche per tutti i paesi: è invece più facilmente prevedibile un riarmo navale generalizzato fra i diversi paesi rivieraschi, che, insieme agli Stati Uniti, hanno intenzione di tenere sotto controllo l’evoluzione della vicenda.

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