IAI
Assedio a Gheddafi

Libia verso il baratro

26 Lug 2011 - Arturo Varvelli - Arturo Varvelli

La Francia ha annunciato in questi giorni che per una soluzione politica in Libia non è necessario che Gheddafi abbandoni il paese. È l’ultima di una serie di dichiarazioni ufficiali che, se analizzate una ad una, rivelano una condotta politica a dir poco incoerente e improvvisata.

Tralasciamo pure il repentino ribaltamento della politica occidentale verso Tripoli compiuto con la decisione di intervenire militarmente, giustificata solo parzialmente dall’azione repressiva sui rivoltosi condotta dal regime. La mera analisi dell’azione militare alleata mostra chiaramente che fin dall’inizio l’obiettivo non era solo quello, dichiarato, di proteggere la popolazione, ma anche quello di cacciare Gheddafi.

Errori di valutazione
Dopo pochi giorni di raid aerei sulla Libia, l’obiettivo del cambio di regime (regime change) è diventato palese (“Gheddafi deve andarsene”) nelle dichiarazioni pubbliche dei rappresentanti dei paesi che partecipavano alla missione. Dal momento in cui l’obiettivo della missione è passato dalla protezione dei civili alla rimozione del rais, di fatto si è esposta sempre più la Nato a un possibile fallimento. Ogni giorno di permanenza al potere di Muammar Gheddafi costituisce una vittoria per lui e una sconfitta per i paesi dell’Alleanza.

È una questione che riguarda l’opportunità dell’intervento, ma anche i mezzi e gli obiettivi dello stesso. Se i costi della guerra e l’evidente contrarietà delle opinioni pubbliche occidentali a qualsiasi intervento terrestre imponevano dei vincoli chiari alla missione, bisognava perlomeno delimitare conseguentemente gli obiettivi. L’azione militare è nata in realtà nella falsa speranza o, meglio, nella valutazione errata, di una rapida caduta del regime e nella sottovalutazione del consenso che il regime raccoglie ancora in ampia parte della Tripolitania.

Una Francia spinta da un idealismo di convenienza – legato al rilancio dell’immagine francese in un’area altamente strategica – ha voluto più di tutti questa guerra. È stato il presidente francese Nicolas Sarkozy a dettarne i tempi, a pressare Barack Obama e a lavorare per l’autorizzazione al Consiglio di sicurezza dell’Onu. In ottica realista qualcuno ha scritto che questa è stata la prima guerra di un Mediterraneo post-americano: una conseguenza della riduzione del peso politico statunitense.

In un periodo di declino dell’egemonia, gli Stati Uniti devono essere parsimoniosi nell’uso delle proprie forze: la ricerca del disimpegno da Iraq, Afghanistan e, appunto il riluttante coinvolgimento in Libia ne sarebbero la testimonianza. Una “leadership from behind” – (guida indiretta) come è stata definita benevolmente dalla stessa amministrazione – che ha in realtà permesso alla Francia di avere una guida politica nell’azione.

Italia, Italietta
Quando l’Italia ha visto che contro Gheddafi si schieravano gli alleati occidentali, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, non ha potuto fare altrimenti che abbandonare “l’amico” e scommettere sul buon esito del regime change, una sorta di salto sul carro del vincitore necessario alla tutela degli interessi nazionali. In teoria, un’Italia più autorevole e dotata di risorse e mezzi, avrebbe potuto giocare un ruolo diverso (sull’esempio di Turchia e Germania). Nel passato, basti ricordare gli anni Ottanta e l’intervento armato degli Usa proprio contro la Libia, non erano mancate prese di posizioni molto diverse.

Oggi all’Italia, che ha più interessi in gioco di molti altri (dal petrolio, al gas, alla stabilità politica, ai confini delle frontiere) conviene non chiudere la scommessa e lavorare ancora per la caduta di Gheddafi, non accodandosi passivamente a scelte altrui. L’Italia ha preso pienamente parte alla missione sovrastimando probabilmente le forze Nato e la determinazione degli Usa. Oggi sono infatti gli stessi francesi e americani a cercare una soluzione di compromesso alla perdurante guerra civile. Il ministro degli esteri francese, Alain Juppé, concede che “Gheddafi potrebbe restare nel paese, se rinunciasse al potere”, ricevendo però il diniego dello stesso Colonnello.

I francesi hanno in ogni caso relativamente poco da perdere. Guadagnerebbero comunque da una soluzione di compromesso o da uno stallo. Di fatto, già oggi questa impasse si concretizza nella divisione del paese in due: la Tripolitania del regime dittatoriale di Gheddafi, sotto sanzioni internazionali e isolata; la Cirenaica liberata del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), amica di Parigi e rafforzata dal sostegno politico, finanziario e militare dai paesi europei e da parte del mondo arabo. La seconda opzione francese, al di là dell’imbarazzo della mancata scomparsa di Gheddafi dalla scena politica, porterebbe comunque, in prospettiva, importanti risultati per Parigi, a cominciare da un rapporto privilegiato con la Cirenaica, soprattutto se i rivoltosi entrassero in pieno possesso dei terminal petroliferi sulla costa del Golfo della Sirte.

Se le cause endogene di questa crisi non sono state irrilevanti – a cominciare da una buona dose di spontaneità della rivolta nelle città della Cirenaica – quelle alimentate dall’esterno sono state prevalenti. In egual misura gli scenari futuri del paese dipenderanno dall’impegno internazionale contro il regime di Gheddafi. Più delle bombe potranno le sanzioni e il blocco che impedisce a Gheddafi di svolgere il ruolo di distributore della rendita (che otteneva dai proventi del petrolio) e ostacola il rifornimento di armi e approvvigionamenti di benzina.

Rischio implosione
Sembra difficile, tuttavia, un’alternativa all’ipotesi dell’implosione del regime. Nonostante i progressi sul terreno militare, i ribelli hanno conquistato a fatica dopo più di tre mesi la terza città del paese, Misurata: quanto ci metterebbero, e con quali conseguenze umanitarie, a prendere la roccaforte del regime, Tripoli? Difficile valutarlo. La scelta di lavorare su ulteriori defezioni del regime, come l’Italia è riuscita a fare con successo, e tentare di logorare il consenso attorno ad esso appare ancora l’unica possibilità, seppure, forse, non risolutiva.

L’attuale situazione si profila come una vera e propria sfida di resistenza: più si daranno segnali di debolezza a Gheddafi, più percepirà spiragli politici (per esempio da Cina e Russia), più terrà duro nella speranza che governi e opinioni pubbliche occidentali si stanchino dell’incomprensibile guerra che gli stanno conducendo. Le ipotesi di un suo abbandono del potere pur rimanendo in Libia, non appaiono realistiche.

Gheddafi non ricopre incarichi ufficiali da molti anni e governa il paese tramite legami informali, prevalentemente clanici. Chi gli impedirebbe di continuare a farlo? Anche se si piegasse a questa soluzione ci troveremmo in balia di uno stato instabile, costantemente minacciato nella sua esistenza. Sarebbe un’ulteriore complicazione da aggiungere a già rilevanti fattori di preoccupazione sul paese: un’identità nazionale debole, le accese rivalità regionali, l’influenza tribale e la crescente diffusione di un islamismo radicale.

Mentre la comunità internazionale e lo stesso inviato dell’Onu proveranno nei prossimi giorni a convincere Tripoli ad accettare un piano politico fondato sul cessate il fuoco e sulla creazione di un Consiglio di transizione formato da rappresentanti delle due parti in conflitto, ma senza Gheddafi o membri della sua famiglia, ciò che realmente si prospetta è un periodo imprecisato di instabilità o fragilità del paese. Ad oggi, l’unica soluzione accettabile per l’immagine della Nato, per la stabilità dell’intera area mediterranea e per l’interesse nazionale dell’Italia, sarebbe la caduta del regime di Gheddafi. Purtroppo, però, nell’immediato, questa appare anche la soluzione più difficile .

Per il futuro, nella migliore delle ipotesi la Libia avrà bisogno di un complesso processo di riconciliazione nazionale e della creazione di nuove istituzioni. Si tratterebbe di una vera impresa di nation building, non solo di state building: alle due identità nazionali del passato, la Senussia (nonostante qualcuno voglia riproporla) e la Jamahiyria, si dovrà sostituire qualcosa di nuovo, che ora però appare difficile individuare.

Il risultato migliore che ne potrebbe derivare sarebbe uno stato debole, frutto di molti compromessi e che difficilmente potrebbe rinunciare alla distribuzione alla popolazione della rendita di petrolio e gas, unica, vera e straordinaria risorsa del paese. Potrebbe quindi venir ripristinato, seppur in altre forme, il patto sociale dell’era Gheddafi: un governo che “corrompe” il cittadino elargendo vitalizi e beni primari, in cambio dell’acquiescenza nei confronti della gestione del potere. Il cammino verso una Libia democratica è tutto in salita.

.