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Occidente e primavera araba

La Libia nel futuro del Nord Africa

22 Lug 2011 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

La primavera araba continua fra eventi incalzanti e numerose vittime. Guardando ai fermenti del mondo arabo nel loro insieme, i paesi occidentali vedono che l’evoluzione verso il cambiamento, iniziata in modo favorevole in Nord Africa, si è poi disastrosamente arenata nel Levante e nel Golfo, cioè nella zona centrale dei conflitti mediorientali.

Gli occidentali tendono dunque a considerare la primavera araba come un’occasione, se non perduta, certo dimezzata. La speranza, molto forte all’inizio, di porre su basi nuove i tormentati rapporti fra Occidente e mondo arabo-musulmano, sta dunque gradualmente svanendo.

Stallo
Ciò rende i paesi occidentali incerti e paralizzati. Hanno approvato a Deauville, in occasione del Vertice del G8 di fine maggio, un pacchetto di aiuti economici e finanziari a favore dei paesi in transizione che a molti è apparso inadeguato. Ma non hanno nessuna strategia nei confronti della primavera araba come processo politico.

Questa lacuna strategica ha un doppio risvolto. Da un lato l’intervento della Nato in Libia, che è l’unico impegno dell’Occidente nel quadro della crisi, si trascina fiaccamente fra contrasti e risentimenti, perché nessuno è in grado di dargli una prospettiva. Dall’altro i governi, a cominciare da quello degli Stati Uniti, hanno scelto una linea che vuole essere di non interferenza (per timore di ripetere gli errori del passato), ma che è in realtà una mera astensione dall’azione diplomatica, sia nei riguardi delle rivolte (Siria, Bahrein, Yemen) sia delle transizioni (Egitto e Tunisia) in corso.

Persino a livello della politica declaratoria si fa fatica ad esprimersi, come dimostrano le prolungate esitazioni dell’amministrazione americana prima di chiedere le dimissioni del presidente siriano Bashar al Assad.

La risposta europea si basa su una forte retorica a favore della primavera araba. Ma la sola politica concreta è quella che, nell’ambito dell’Unione europea, ha migliorato i termini e ampliato gli strumenti della Politica europea di vicinato. Questa politica riguarda tuttavia solo i rapporti bilaterali fra l’Ue e i singoli paesi. Per le sue caratteristiche essa potrà forse essere d’aiuto ai paesi del Nord Africa, che hanno già scelto la transizione più o meno democratica, ma lascia fuori gli altri paesi e la regione nel suo complesso perché non è una strategia globale. Alcuni europei, come la Francia, il Regno Unito, l’Italia, sono i protagonisti dell’intervento militare in Libia, ma faticano a portarlo a compimento perché, come già detto, non riescono a collocarlo in un contesto strategico più organico.

Nodo transatlantico
Le difficoltà che sono emerse nell’intervento in Libia, in realtà, non sono solo europee, ma risalgono alla debolezza dei legami atlantici. Mentre gli europei hanno iniziato l’intervento un po’ alla leggera, confidando, come al solito, in un suo rapido esito positivo, gli americani ci si sono sentiti trascinati. Ben presto l’amministrazione si è praticamente chiamata fuori. Un po’ per la percezione, diffusa in tutto il mondo politico americano, della scarsa rilevanza strategica della Libia. Un po’ perché con il trascorrere dei giorni l’amministrazione ha preferito assumere una linea generale di assistenza affiancata ad una rinuncia a svolgere un ruolo di guida.

Un funzionario della Casa Bianca ha definito la linea come “leadership from behind” (guida indiretta). La politica che sembra aver scelto l’amministrazione Obama è legata alla difficoltà di gestire la pesante eredità in Iraq e Afghanistan e ad affrontare la non meno complessa crisi economica che perdura nel paese. In ogni caso, si tratta di una reazione molto cauta e sfiduciata verso quella che agli inizi era stata salutata come un’opportunità storica, convergente con le aspirazioni occidentali.

Questa reazione non incoraggia certo gli europei a migliorare la loro risposta. Complessivamente, quindi, la grave crisi che oggi imperversa in Nord Africa e Medio Oriente non trova una risposta strategica convincente da parte dell’Occidente, bensì solo delle politiche volte a evitare o limitare i danni.

Occasione Nord Africa
È possibile uscire da questa situazione? Per provarci occorre abbandonare la visione della crisi che prevale fra i paesi occidentali e considerare invece che sin dall’inizio è emersa in Nord Africa una situazione diversa da quella del Levante e del Golfo. È in Nord Africa, infatti, che le domande popolari di riforma si sono tradotte in transizioni politiche pacifiche (in Tunisia, in Egitto) e in iniziative da parte del regime, come in Marocco.

Nel Golfo, la sollevazione dell’opposizione sciita a Bahrein è stata prontamente e severamente repressa, con l’intervento dei sauditi, sotto la copertura del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg). Nello Yemen la mediazione del Ccg è fallita e il paese è sull’orlo di una guerra civile. In Siria è in corso da mesi una spietata repressione che potrebbe tradursi in una guerra civile. La differenza è perciò netta. Mentre si deve guardare agli eventi del Levante e del Golfo come ai primi passi di un processo molto lungo e accidentato, a quelli del Nord Africa si deve guardare come transizioni che potrebbero dare un risultato nel breve termine.

Questa differenza è importante per l’Occidente, perché indica che in Nord Africa esiste un margine di manovra che invece le condizioni prevalenti nel Levante e nel Golfo escludono. E questo, a ben vedere, riguarda anche la Libia. Mentre nei rivolgimenti che riguardano il Levante e il Golfo le condizioni strategiche non consentono interventi occidentali senza che questi scatenino forti reazioni negative o addirittura conflitti regionali, in Libia un intervento militare si è reso possibile grazie all’assenza di connessioni regionali del paese altrettanto rischiose. Al contrario, l’intervento è avvenuto sulla base di un sostanziale accordo arabo-occidentale.

Il margine di manovra dunque c’è ed è ampio: comprende sia i tre paesi che hanno intrapreso una transizione pacifica, sia la Libia e la sua guerra civile, che dunque vanno visti sotto una stessa angolatura strategica.

Obiettivo Libia
In Nord Africa c’è un obiettivo strategico utile e raggiungibile: creare un’area sostanzialmente continua in cui la transizione democratica abbia più forti possibilità di consolidarsi. Alla luce di questo, l’intervento in Libia acquista un senso preciso: evitare che ci sia una discontinuità nella transizione democratica dell’Egitto e della Tunisia e che una Libia non democratica saboti o complichi l’evoluzione del Nord Africa.

Nell’insieme, l’appoggio occidentale in Nord Africa non è solo praticabile. Esso avrebbe anche il valore strategico di mettere al sicuro una prima piattaforma democratizzante, con buoni rapporti con l’Occidente, capace di impedire o ostacolare futuri passi indietro e di influenzare l’evoluzione del Levante e del Golfo verso riforme che nel breve termine appaiono improbabili.

Questa linea non implica politiche molto diverse da quelle che si stanno perseguendo. Ma offre quella prospettiva d’insieme che oggi manca e che sola può dare all’azione in corso razionalità, efficacia e slancio. Per attuarla non resta molto tempo, ma i margini ancora ci sono. Sarebbe un errore iniziare a perseguire questa strategia cercando di convincere gli Usa, che sono immersi in un dibattito nazionale troppo complesso e penoso per venirne a capo in breve tempo.

Gli europei invece possono intraprenderla anche da soli e da subito, sia militarmente in Libia, sia concentrando la Politica di vicinato sul Nord Africa (come, del resto, si sta tendendo a fare). Dei risultati potranno poi beneficiare sia l’Europa sia l’intera Alleanza.

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