Risposta araba alla pirateria in Somalia
Il prossimo settembre si terrà a Roma il World maritime day (Wmd) 2011, evento organizzato dall’agenzia delle Nazioni Unite specializzata nello sviluppo e nella sicurezza della navigazione internazionale (World maritime organization, Wmo). La giornata sarà incentrata sul tema della pirateria, in particolare quella somala, fenomeno in continua ascesa dal 2006.
Impennata
La pirateria somala ha intensificato la propria attività illecita soprattutto negli ultimi due anni: nel biennio 2009-2010 gli attacchi sono saliti a 437, rispetto ai 161 del triennio 2006-2008. Tre diverse missioni internazionali sono ad oggi attive nell’area compresa tra il Mar Arabico e l’Oceano Indiano: la Combined Task Force 151 (CTF-151) guidata dagli Stati Uniti; l’Operazione Atalanta condotta dai Paesi europei; l’Operation Ocean Shield della Nato, che coinvolge decine di paesi in tutto il mondo (Stati Uniti, Canada, Arabia Saudita, Russia, India, Cina e Giappone, solo per citarne alcuni, oltre all’Unione europea).
Ad accrescere la preoccupazione della comunità internazionale è stata la capacità dei pirati somali di spingersi sempre più lontano dalla costa; se all’inizio gli attacchi si verificavano entro le 50 miglia al largo della Somalia, oggi arrivano a circa 130 miglia, interessando la zona delle Seychelles fino all’Oceano Indiano.
Questa tendenza rende ancora più complesso il pattugliamento: basti pensare che solamente la CTF-151 compie attività di sorveglianza di un’area di quasi tre milioni di km². La relativa facilità dimostrata dai pirati nel reperimento di telefoni satellitari, lance veloci e armi molto articolate (quali AK-47 o RPG7), ha inoltre incrementato la frequenza e la violenza degli attacchi pirateschi, i quali sono percepiti dalla criminalità somala come un’attività a basso rischio e con elevati rendimenti.
Gli attacchi pirateschi hanno comportato perdite per l’economia globale tra i sette e i 12 miliardi di dollari, considerando anche il pagamento dei riscatti per ottenere la liberazione degli equipaggi e la restituzione delle navi. Solo nel 2010, circa 238 milioni di dollari sono finiti nelle tasche dei due-tremila pirati che operano nel Golfo di Aden. Uno dei rischi è che petroliere e navi cargo optino per la circumnavigazione del Capo di Buona Speranza, determinando un aumento dei costi di navigazione pari a circa tre miliardi di dollari.
“Orchestrare una risposta”
Sarà questo l’indirizzo dei dibattiti che animeranno il Wmd 2011. Prendendo in considerazione il caso della Somalia, il termine “orchestrare” non potrebbe essere più adatto. La pirateria nel Golfo di Aden ha infatti ripercussioni su scala globale e richiede una stretta cooperazione tra i principali soggetti internazionali. È ormai opinione largamente condivisa che una reale soluzione del problema della pirateria somala potrà essere raggiunta nel lungo periodo solamente con una stabilizzazione della parte terrestre del paese. Obiettivo non semplice da perseguire, visti i fallimenti degli anni passati.
Un coordinamento tra le diverse operazioni navali nel Mar Arabico è tuttavia indispensabile, quanto meno per limitare i costi che la comunità internazionale è costretta a pagare. Sostanziali passi avanti sono stati compiuti recentemente dalle flotte militari operanti nella regione. Il potenziamento delle misure di deterrenza e condivisione delle informazioni sta già dando i suoi frutti. Alle operazioni di pattugliamento Vbss (“Visit”, “Board”, “Search” and “Seizure”), sono state affiancate quelle di riconoscimento delle unità navali transitanti tra l’Oceano Indiano ed il Mar Arabico (Maritime Patrol and Reconnaissance Aircraft – Mpra e il cosiddetto Shade – SHared Awareness and DEcodification).
Soluzione regionale?
Recentemente i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc), che riunisce Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, hanno avviato un intenso dibattito sulla possibilità di contribuire più attivamente alle operazioni di lotta alla pirateria.
L’allargamento del raggio d’azione dei pirati somali sta infatti colpendo duramente il traffico petrolifero dei paesi del Gcc. Circa 20 mila navi, il 20% dei trasporti commerciali globali via mare, passano attraverso il Golfo Persico; a queste si aggiungono le petroliere che ogni anno trasportano il 4% della domanda globale di greggio. Nel solo Stretto di Hormuz transita il 90% del petrolio estratto dai paesi del Gcc e diretto in Asia ed Europa.
Una eventuale “soluzione araba” del problema vedrebbe quindi un ruolo primario dei paesi del Golfo, verosimilmente in seno alle missioni internazionali già operative, come la Ctf-151. In particolare, gli Emirati Arabi Uniti si stanno affermando tra i più attenti alla lotta alla pirateria somala. La presenza di condizioni economiche e politiche più stabili rispetto agli altri paesi della regione risulterebbe essenziale; il caso dello Stretto di Malacca insegna che una soluzione duratura al fenomeno piratesco è possibile solo grazie ad un ruolo attivo da parte degli Stati rivieraschi coinvolti.
Stati come Singapore, Malesia e Indonesia, caratterizzati da una certa solidità politico-economica, hanno assunto un ruolo decisivo nei successi conseguiti nello Stretto di Malacca contro la pirateria locale. Da non trascurare, inoltre, l’aspetto delle intense relazioni commerciali esistenti tra paesi arabi e la Somalia; relazioni che hanno favorito una notevole familiarità degli arabi con il sistema tribale somalo.
Ad oggi, tuttavia, i limiti di un’eventuale soluzione su scala regionale sono cospicui. Alle inadeguate risorse in fatto di mezzi navali capaci di intervenire oltre il semplice controllo costiero, occorre aggiungere anche la scarsa interoperabilità e l’inadeguato addestramento degli equipaggi arabi nella conduzione di attività coordinate di pattugliamento. Carenze che interessano anche le capacità di intelligence.
Un potenziamento della cooperazione tra la Nato e i Paesi del Golfo, prima fra tutti l’Istanbul Cooperation Initiative (Ici), potrebbe giovare ad un possibile intervento dei Paesi del Gcc nella lotta alla pirateria. Come il caso della guerra in Libia insegna, paesi come Qatar, Kuwait ed Emirati Arabi stanno lentamente cercando di imporsi come nuovi interlocutori nella regione mediorientale e potrebbero rappresentare una risorsa anche nella lotta alla pirateria somala.
.