Onori e oneri delle missioni all’estero
Nel sistema delle relazioni internazionali responsabilità e potere non sono separabili: da un lato c’è il burden sharing, ovvero la condivisione internazionale del fardello, di un onere che è o dovrebbe essere comune per tutti gli Stati del mondo; dall’altro il power sharing, ovvero la condivisione del potere che, idealmente, dovrebbe essere esercitato armoniosamente e in maniera corale. Burden sharing e power sharing sono le due metà della medesima mela. Dovrebbero quindi risultare perfettamente complementari tra loro. Ciò è vero però soltanto in teoria. La realtà è molto differente.
Responsabilità e potere
Tutti sono infatti pronti a rivendicare un burden sharing a loro più favorevole. Nessuno è invece disposto a cedere di sua iniziativa la porzione di potere corrispondente al nuovo livello di assunzione di responsabilità da parte di altri protagonisti. Un atteggiamento tipico delle potenze declinanti.
Di contro, tutti cercano di accaparrarsi una fetta di potere maggiore di quella di cui dispongono, senza accollarsi un corrispondente aumento degli oneri. È questo, di norma, il comportamento delle potenze emergenti.
La partecipazione di ciascuno stato alle operazioni di pace è espressione tanto del power sharing quanto del burden sharing all’interno della comunità internazionale nei vari momenti storici.
Se si prende in esame il quadro complessivo degli interventi nelle varie situazioni di crisi, si scopre come ciascuno Stato abbia in realtà assunto, non a caso, impegni diversi, per quantità, natura, e dislocazione geografica da quelli di ogni altro. È solo la mancanza di strumenti di valutazione idonei a ridurre ad un valore unico elementi molto differenziati fra loro e afferenti a sfere diverse (politica, economica o militare) che impedisce di vedere con chiarezza come il peso relativo del burden sharing che grava sulle spalle di ciascun paese corrisponda grosso modo alla sua posizione nell’ambito del gioco del power sharing a livello internazionale.
Ragioni dell’Italia
A volte, in maniera molto approssimativa, la misurazione è effettuata considerando unicamente l’ambito degli impegni militari e il totale di uomini e mezzi impegnati all’estero in operazioni di pace. Anche in questo caso, nonostante la grossolanità di questo criterio di misura, power e burden sharing risultano strettamente correlati.
Sono chiare, a questo punto, le ragioni della nostra partecipazione alla gestione delle crisi internazionali. Ci siamo, infatti, perché dobbiamo esserci, se vogliamo rimanere fra coloro che contano. Il fatto di essere particolarmente impegnati non è certo un segnale negativo. È al contrario una conferma della capacità di mantenere una posizione faticosamente conquistata dal 1945 in poi.
Un segnale negativo sarebbe invece – o forse già lo è – il manifestarsi di una tendenza verso una decisa riduzione degli impegni.
Non abbiamo perciò bisogno di inventarci giustificazioni fantasiose per i nostri interventi, come: “Siamo là per salvaguardare i nostri interessi strategici…” , perché a questo punto qualcuno ci dovrebbe spiegare cosa ci facciamo nel grande gioco dell’Asia centrale che è in fondo qualcosa che interessa soltanto Usa, Cina , India e Russia. E si noti che tre di queste quattro potenze non sono presenti sul terreno.
Obiettivo di fondo
Oppure: ”Siamo là per proteggere i nostri rifornimenti di energia…”, mentre, in realtà, nel caso della Libia stiamo distrattamente collaborando a farci escludere da quella che era una delle nostre tradizionali aree di influenza. E ancora: “Siamo lì per partecipare con la nostra industria alla divisione della torta della ricostruzione…” che guarda caso viene invece sempre suddivisa con appetito leonino tra americani ed inglesi.
“Siamo lì per esportare la democrazia…”, si sostiene in alcuni casi. È dubbio però che si tratti di mercanzia esportabile. Con le armi non lo è di sicuro. Con internet forse, ma questo è un discorso che ancora non si capisce bene come si inserisca nell’ambito del power/burden sharing e che meriterebbe di essere approfondito. “Siamo lì per porre termine ad un genocidio…” si sottolinea in altri casi. E cadiamo in trappole come quella del Kosovo. E via di questo passo.
Non esistono quindi altri reali motivi per il nostro impegno al di là della difesa del nostro ruolo internazionale o – se e quando essi esistono – sono fusi fra loro in maniera tale che il peso reale di ciascun elemento diviene difficilmente valutabile.
La dinamica reale è quindi chiaramente quella dell’accoppiata burden sharing-power-sharing, tra condivisione degli oneri e condivisione del potere. Una dinamica che muta nel tempo, con posizioni che sono tutt’altro che cristallizzate una volta per tutte. Auguriamoci di poter mantenere in futuro il nostro livello di impegno, cioè in sostanza la nostra posizione nel mondo, da cui dipendono molte cose, in primo luogo il nostro benessere. E quello dei nostri figli.
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