Missioni all’estero e interesse nazionale
È un periodo di rapidi e importanti mutamenti e la politica estera italiana deve adeguarsi. Bisogna ripensare gli impegni presi, considerare attentamente quelli futuri, scegliere le nuove priorità. Purtroppo, però, il peso esorbitante delle polemiche di politica interna e delle restrizioni di bilancio spingono verso decisioni frettolose e riduttive, apparentemente vantaggiose nel breve termine, ma poco consapevoli della posta in gioco.
Orizzonte Mediterraneo
Il Mediterraneo è in piena trasformazione. Il cambiamento di regime in Egitto e Tunisia e la guerra civile in Libia cambiano gli equilibri regionali, ma la “primavera araba” è ancora incerta e carica di rischi. Si delineano nuove assi, con l’Algeria vicina alla Siria, a forte difesa del proprio sistema, e il Marocco, assieme alla Giordania, alla ricerca di nuove alleanze con le monarchie arabe, attraverso una loro adesione al Consiglio di Cooperazione del Golfo.
Nel frattempo l’Egitto accresce il suo ruolo politico in Palestina sponsorizzando, al Cairo, la firma di un accordo di collaborazione tra Al-Fatah, Hamas e undici altri gruppi politici palestinesi, che dovrebbe mettere fine alla divisione tra le fazioni prevalenti a Gaza e in Cisgiordania.
Cambia, forse in meglio, il quadro della minaccia terroristica. L’uccisione di Bin Laden, in Pakistan, è una nuova sconfitta di al-Qaida, già largamente emarginata all’interno del mondo arabo e di quello islamico e scavalcata e ignorata dalle manifestazioni che segnano il risveglio popolare nell’intera regione. Rimangono situazioni ad alto rischio, in primo luogo in Yemen, dove le tattiche dilatorie messe in atto dal presidente Saleh hanno sinora impedito la firma di un accordo con le opposizioni, mediato dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, che prevede le dimissioni di Saleh in cambio dell’immunità.
Il presidente invece vorrebbe rimanere in carica almeno sino alle elezioni previste per il 2013. Ma anche se tutto ciò desse nuova forza alla branca yemenita di al-Qaida, gli analisti ritengono che il processo di frammentazione regionale del terrorismo salafita continuerebbe, consentendo una più agevole attività di repressione e diminuendo le capacità operative complessive dell’organizzazione.
Nuove priorità
Si complicano però le già tese relazioni tra il Pakistan e gli Stati Uniti, rendendo più incerte le prospettive di un progressivo disimpegno militare in Afghanistan. E intanto la crisi economica non è ancora superata e le fiammate speculative sul prezzo del petrolio e del gas rendono più lenta ed incerta la ripresa economica.
È chiaro che questi ed altri mutamenti porteranno ad un ripensamento degli attuali impegni internazionali nelle aree di crisi. Ci si aspetta a breve una decisione circa la permanenza di una significativa presenza militare americana in Iraq. Saranno prese importanti decisioni anche sulla presenza internazionale in Afghanistan, da cui dovrebbe iniziare un primo ritiro.
Dopo anni di impegno contro la pirateria nelle acque della Somalia, del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, ci si domanda se l’aggravarsi della crisi in Somalia e forse in futuro anche nello Yemen richiedano un nuovo tipo di intervento. Bisognerà accrescere la cooperazione contro le attività del gruppo di al-Qaida nel Maghreb. E rimane il punto interrogativo sul futuro della missione Unifil anche alla luce della doppia crisi in atto in Siria e in Libano (dove da mesi non si riesce a formare un nuovo governo).
Responsabilità nazionale
L’Italia è parte importante di questo quadro. È presente con missioni militari, civili e di polizia in Medio Oriente (Libano, Gaza, Egitto, Iraq, Cisgiordania e Israele), in Asia Centrale (Afghanistan e Kashmir), nell’Oceano Indiano, in Africa (Congo, Marocco, Sudan), nelle operazioni contro la Libia e a Cipro, a Haiti, nell’ex-Jugoslavia, in Albania e in Georgia.
Si tratta di un impegno complessivo di lungo periodo, confermato nel corso degli ultimi decenni senza soluzioni di continuità, che ha caratterizzato la politica estera e di sicurezza dell’Italia in ambito Onu, Nato e Ue, nonché nei rapporti bilaterali con numerosi paesi. È un impegno sia umano (attualmente circa 7.500 uomini) sia finanziario (circa 1,2 miliardi di euro l’anno solo per le spese straordinarie), giustificabile solo se corrisponde a chiare priorità politiche.
Sino ad oggi nessuno aveva avuto seri dubbi. La partecipazione a tali operazioni risponde sia ad esigenze umanitarie che di sicurezza e consolida il ruolo italiano all’Onu, nella Nato e nell’Ue, oltre ad accrescere la credibilità del paese nei confronti degli alleati e a confermare la sua importanza come interlocutore per molti paesi chiave.
È evidente come le minacce e i rischi siano sempre più transnazionali e globali e che quindi debbano essere affrontati con la più ampia collaborazione internazionale: la partecipazione attiva alla gestione delle crisi è il modo più efficace per ottenere tale collaborazione.
Sinora le maggiori obiezioni venivano dall’ala “pacifista” dello spettro politico italiano, che considera molte missioni alla stregua di “guerre” più che di operazioni di riduzione della minaccia e stabilizzazione. Ma è sempre stato facile dimostrare quanto importanti fossero gli obiettivi di sicurezza, pace e giustizia e quanto infondata, quindi, quella visione delle missioni militari.
Collocazione internazionale
Ora invece si afferma semplicemente che questo non è più l’interesse prevalente dell’Italia, che il paese non ha risorse da sprecare e che deve piuttosto concentrarsi su altri obiettivi, tra cui spicca soprattutto quello di chiudere le sue frontiere alla migrazione illegale. A parte la fattibilità di un simile obiettivo (certo non raggiungibile semplicemente dispiegando qualche migliaio di militari in più lungo le coste), l’idea di fondo che sembra affermarsi tra alcune forze politiche è che sia possibile, oltre che necessario, assicurare la sicurezza restando chiusi in difesa del proprio recinto, all’interno dei confini nazionali.
Ritirarsi da una missione in cui si è impegnati, specie da quelle in cui l’impegno è più consistente, è una decisione seria, perché comporta, in molti casi, la necessità di essere sostituiti: in altri termini, si scarica su qualcun altro il peso che inizialmente si era deciso di portare.
Diverso è il caso di quelle missioni che si avviano ad una loro conclusione naturale (come avviene ad esempio nei Balcani), ma per andarsene dal Libano o dall’Afghanistan non basta semplicemente lamentarsi dei costi, bisogna dare delle giustificazione politiche valide. E comunque, per una missione che finisce, un’altra è già alle porte: basta considerare i mutamenti in atto nella regione di nostro più immediato interesse.
Allo stesso tempo pensare di poter affermare il proprio ruolo internazionale e difendere la propria sicurezza rinserrando le frontiere è una pericolosa illusione. Criminalità e terrorismo non sono mai stati arrestati dalle barre confinarie, tanto meno oggi, in una società globalizzata. E questo vale a maggior ragione per la difesa della propria sicurezza economica o energetica. Persino le migrazioni illegali perforano queste porosissime barriere in cento modi diversi, tra i quali i barconi che solcano il Mediterraneo sono solo i più scenografici e tragici, ma non certo i più importanti.
Ma soprattutto, passare da una politica di forte impegno internazionale ad una del piede di casa non è una scelta tecnica, bensì un grosso mutamento della collocazione e del ruolo del paese, sia all’Onu che nei rapporti con gli alleati. Prima di una svolta di questa importanza sarebbe bene avviare un serio e approfondito dibattito nazionale.
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