L’orizzonte strategico della “primavera araba”
I recenti sviluppi della “primavera araba” ne hanno messo più chiaramente in luce la portata e il significato. A quattro mesi dall’inizio della prima rivolta in Tunisia, si comincia a vedere che lo sviluppo dei processi democratici è più incerto e limitato di quanto si pensasse, mentre le implicazioni strategiche dei cambiamenti in corso sono più ampie.
La rivolta in Siria non è solo ispirata da una richiesta di libertà, ma dal desiderio della maggioranza sunnita, animata dai Fratelli Musulmani, di estromettere la dittatura della minoranza alawita alleata con l’Iran e gli sciiti libanesi. Da qui la cautela a intervenire da parte degli Usa e dell’Occidente. Un cambiamento di regime in Siria potrebbe infatti produrre notevoli cambiamenti negli equilibri strategici della regione.
Nuovo approccio in Egitto
D’altra parte, il regime militare transitorio che governa l’Egitto ha aperto il valico con la Striscia di Gaza, proprio mentre veniva raggiunto un accordo politico fra le due organizzazioni palestinesi rivali, Hamas, che controlla Gaza, e Fatah, al potere in Cisgiordania. È un cambiamento radicale della politica egiziana nei confronti di Israele, che era basata sulla chiusura verso Hamas, in quanto ramo dei Fratelli Musulmani, e sull’appoggio al moderato Abbas, presidente dell’Autorità nazionale palestinese, in quanto possibile protagonista di un accordo con Gerusalemme.
In alcuni paesi è emersa una genuina domanda di democrazia, in altri la lotta alla tirannia è collegata anche ad altri obiettivi politici, che sono talvolta preminenti. In alcuni paesi, la rivolta è nata e si è sviluppata da una spinta democratica, come in Tunisia; in altri da interessi nazionalistici, come in Egitto; in altri ancora da interessi religiosi e settari, come in Siria e in Bahrein. Ovunque sono in gioco interessi di ceti borghesi, oggi discriminati e conculcati da regimi monopolistici basati su pratiche clientelari e mafiose. Queste borghesie agiscono, tuttavia, in quadri ideologici che non necessariamente collimano con quelli che hanno storicamente contrassegnato le borghesie occidentali.
Direzione del cambiamento
Le giovani forze che hanno innescato le rivoluzioni tunisine ed egiziane, dando il via ad altre rivolte nella regione, non sono egemoni; esse hanno messo in movimento forze più ampie e strutturate che tendono ora a prendere il sopravvento. Sono queste ultime che stanno determinando la direzione del cambiamento.
Il sommovimento politico in atto nel Mediterraneo e nel Medio Oriente non è solo ideologicamente e socialmente estraneo all’esperienza occidentale, è anche determinato da interessi politici tendenzialmente antagonisti a quelli dell’Occidente. La rivolta è diretta, a prima vista, contro la tirannia dei regimi, ma in realtà investe e rimette in discussione le politiche regionali e internazionali che essi hanno perseguito in spregio a forti e radicati interessi politici, religiosi, settari ed etnici.
È il caso dell’alleanza di molti regimi con l’Occidente in contrapposizione alle spinte islamiste; dei legami della Siria con l’Iran in contrapposizione agli interessi della maggioranza sunnita del paese; dell’alleanza dell’emiro sunnita di Bahrein con l’Arabia Saudita in contrapposizione alla maggioranza sciita della popolazione; dei rapporti dell’Egitto (della Giordania, dell’Arabia Saudita, etc.) con Israele in contrapposizione ai sentimenti delle popolazioni. Avviate da giovani internauti – presto rivelatisi politicamente inesperti – le rivolte contro i regimi investono gli assetti interni, ma anche, e forse soprattutto, la politica estera e di sicurezza.
Un ordine al tramonto
Le rivolte in corso nascono da un malessere e malcontento che hanno cause immediate, ma riflettono anche squilibri strutturali, che si sono accentuati negli ultimi decenni. Stiamo assistendo alla disgregazione di un ordine regionale, promosso e plasmato dall’Occidente, che è durato a lungo, ma che è ora sull’orlo del collasso.
È un ordine emerso alla fine degli anni settanta, con la pace fra Egitto e Israele; ha resistito al Fronte del Rifiuto e all’offensiva terroristica da esso lanciata negli anni ottanta; si è allargato e rafforzato con la fine della guerra fredda e la conferenza di Madrid agli inizi degli anni novanta nel quadro di una grande coalizione fra Occidente e arabi moderati; e si è ulteriormente strutturato dopo gli attentati dell’11 settembre.
Le guerre di Bush e il rafforzamento dell’Iran che ne è derivato, nonché l’esacerbarsi del conflitto israelo-palestinese hanno però introdotto gravi contraddizioni nella coalizione, indebolendo il consenso interno ai regimi, che hanno reagito divenendo più oppressivi.
La più stretta alleanza arabo-occidentale dopo l’11 settembre, basata sulla guerra al terrorismo e il contenimento dell’emigrazione, ha finito per dare carta bianca ai regimi, in particolare ai loro sistemi economici corrotti e clientelari, che hanno impoverito le popolazioni e marginalizzato gran parte delle borghesie. Si è creata così una miscela di radicalizzazione politica, impoverimento economico ed estremo malessere sociale che non poteva mancare di esplodere e mettere in causa, oltre ai regimi stessi, le loro politiche estere e l’ordine regionale che essi hanno sostenuto.
Le rivolte stanno al capezzale di un ordine moribondo. È oggi difficile dire fin a che punto quest’ordine cambierà, ma è facile prevedere che siamo alla fine di un’era e che ne sta emergendo un’altra, anche se dai contorni confusi e contraddittori. Cambieranno i regimi, alcuni saranno più liberali dei precedenti, altri (pochi) democratici. Saranno in ogni caso diversi, come diversi saranno i rapporti che instaureranno con l’Occidente.
Peculiarità Maghreb
L’evoluzione non è ovviamente la stessa in tutte le aree e paesi. Quella in Nord Africa, specialmente quella nel Maghreb, appare caratterizzata in senso più democratico di quella nel Vicino Oriente. Inoltre, la situazione in Nord Africa non è sottoposta ai vincoli e condizionamenti strategici che vigono invece nel Vicino Oriente e nel Golfo. È questo, peraltro, che permette l’attuale intervento dell’Occidente, per quanto limitato, in Libia.
È prevedibile che si affermi una crescente differenziazione fra Mashreq e Maghreb e che gli europei, in particolare, instaurino rapporti più stretti con il Maghreb, più difficili e problematici con le altre regioni arabe.
Queste riflessioni potranno essere più dettagliate e precise con il passare del tempo, ma la tendenza è quella che si è sommariamente qui illustrata. Se ne dovrebbe sin d’ora tenere conto nella predisposizione delle politiche europee e transatlantiche. Europa e Usa devono continuare a incoraggiare e sostenere i processi di liberalizzazione e democratizzazione ovunque effettivamente si profilino, ma anche prepararsi a una nuova configurazione strategica della regione: un tema che oggi viene colpevolmente trascurato.
.