Al-Qaida dopo Bin Laden
L’uccisione di Osama Bin Laden solleva numerosi quesiti sul futuro di al-Qaida e dei gruppi salafiti-jihadisti ad essa affiliati o contigui. Prima del raid del 2 maggio a Abbottabad, in Pakistan, il peso effettivo di Bin Laden nella galassia terroristica islamista era oggetto di un dibattito vivace tra gli studiosi e gli esperti. In sintesi, alcuni sostenevano che dopo l’invasione dell’Afghanistan nel 2001 il pericolo non provenisse più da Bin Laden e dalla sua cerchia storica, ma da piccole cellule costituitesi autonomamente in Occidente; altri erano convinti invece che la direzione centrale di al-Qaida conservasse un ruolo di primo piano (1). Per i primi la minaccia terroristica veniva principalmente dal basso (bottom-up), per i secondi dall’alto (top-down).
Ruolo di Bin Laden
Le prime informazioni rese note dopo l’operazione dei Navy Seals del 2 maggio, per quanto parziali e potenzialmente interessate, sembrerebbero dare qualche ragione alla seconda visione. Secondo fonti del governo statunitense, il materiale reperito nel rifugio di Bin Laden attesta che egli era ancora operativo a livello strategico e persino tattico. In particolare, avrebbe avuto un ruolo diretto nell’organizzazione di un attentato alla rete ferroviaria statunitense, che avrebbe dovuto essere realizzato, secondo i piani, nel decimo anniversario dell’11 settembre.
Il terrorista più ricercato del mondo, rifugiatosi in un’agiata zona residenziale a poca distanza da Islamabad, non aveva, a quanto pare, una linea telefonica né una connessione internet e non possedeva telefoni cellulari per ragioni di sicurezza, ma si serviva di corrieri fidati; poteva quindi tenersi in contatto con i propri seguaci.
D’altra parte, non si può certamente sostenere che Bin Laden fosse il leader dominante del terrorismo islamista. La clandestinità gli impediva di esercitare un ruolo diretto e continuativo nella pianificazione delle attività terroristiche, nel reclutamento e nella stessa opera di motivazione degli aspiranti terroristi.
In realtà l’influenza a livello globale della direzione centrale di al-Qaida è venuta via via riducendosi. L’organizzazione, fortunatamente, non ha portato a termine alcun attentato di rilievo in Occidente dopo il 2005. Né è riuscita a mobilitare le masse islamiche e, soprattutto, arabe. Al contrario, negli ultimi anni il livello di consenso per Bin Laden è sceso considerevolmente in molti paesi musulmani (2). Le ribellioni esplose in Nordafrica e in Medio Oriente negli ultimi mesi hanno fatto ricorso a parole d’ordine e forme di lotta ben lontane da quelli dell’estremismo islamista, confermando la crescente marginalità di al-Qaida nel mondo arabo.
Certamente lo “sceicco del terrore” è diventato fonte di ispirazione per un’ampia galassia di gruppi e di cellule di matrice salafita-jihadista. Nondimeno, nella stessa produzione retorica e propagandistica dei militanti e simpatizzanti, l’attenzione dedicata a Bin Laden e ai suoi più stretti sodali (come il suo numero due, Ayman al-Zawahiri) si è ridotta nel corso del tempo. Nei forum jihadisti hanno acquistato spazio altre figure: spesso personaggi meno conosciuti dall’opinione pubblica occidentale, ma di grande influenza, come l’ideologo giordano Abu Muhammad al-Maqdisi (attualmente detenuto in carcere nel suo paese natale).
Sebbene la sua autorità non sia mai stata contestata apertamente, Bin Laden è stato spesso e da più parti oggetto di critiche. In effetti l’intero mondo salafita-jihadista ha conosciuto fratture significative su questioni di ordine ideologico, strategico, tattico, organizzativo. Divisioni si sono manifestate, per esempio, sulla legittimità della “scomunica” (takfir) dei presunti apostati e, ancor più, sulla violenza intenzionale contro i civili musulmani. C’è inoltre un disaccordo sull’obiettivo strategicamente prioritario: se debba essere la guerra al “nemico vicino” (i regimi arabi) o al “nemico lontano” (Stati Uniti e loro alleati). A tutto ciò si aggiungono le tensioni tra i militanti arabi e non arabi (e, in più, tra arabi di diversi paesi).
La successione
La morte di Bin Laden ha ovviamente aperto la questione delicata della successione. Il 18 maggio alcuni autorevoli mezzi di comunicazione, riprendendo notizie apparse sulla stampa pakistana, hanno annunciato che la guida di al-Qaida era stata assunta temporaneamente da Saif al-Adel (nome di battaglia che in arabo significa “spada della giustizia”), già membro di spicco del comitato militare dell’organizzazione. Saif al-Adel, ex ufficiale delle forze speciali egiziane, è sospettato di essere la mente degli attentati suicidi contro le ambasciate statunitensi in Tanzania e Kenya del 1998, ma si pensa anche che si sia opposto al piano dell’11 settembre.
È innanzitutto un esperto di questioni militari e strategiche, sprovvisto di credenziali religiose. Secondo una fonte interpellata dalla Cnn, la nomina sarebbe stata decisa informalmente da un ristretto gruppo di capi di al-Qaida nella regione al confine tra Afghanistan e Pakistan. Infatti i membri del Consiglio della shura (majlis al shura), il massimo organo consultivo di al-Qaida, in queste settimane preferirebbero non riunirsi per timore di essere catturati.
La designazione ad interim di Saif al-Adel potrebbe aprire la strada all’ascesa del suo connazionale Zawahiri, il medico egiziano di cinquantanove anni, storico portavoce e stratega dell’organizzazione. Zawahiri gode di una notorietà planetaria e ha un’esperienza senza pari nel campo jihadista. È però privo di carisma e di preparazione religiosa ed è stato accusato di settarismo.
Altre figure emergenti del movimento salafita-jihadista sembrano avere meno chance. In particolare, Abu Yahya al-Libi, quarantasettenne libico, pur vantando familiarità con gli studi coranici, brillanti capacità oratorie e un notevole consenso (soprattutto dopo la sua evasione da una prigione afghana nel 2005), non ha ancora una statura e un’esperienza di leader e di combattente paragonabili a quelle dei veterani di al-Qaida. Ancora più giovane è Anwar al-Awlaki, imam di cittadinanza statunitense, attivo nello Yemen, terra di origine dei genitori; è un famoso predicatore del web e un abile reclutatore, ma viene considerato ancora un leader regionale, impegnato nella lotta nella penisola arabica.
Certamente, a livello organizzativo, non sembra facile trovare una figura che combini le qualità propagandistiche e simboliche, le doti organizzative e le risorse economiche del fondatore. L’assenza di un leader autorevole potrebbe allargare quelle fratture già presenti, secondo molti esperti, nello stesso nucleo storico dell’organizzazione. D’altro canto, è opportuno ricordare che l’ideologia dei gruppi salafiti-jihadisti attribuisce maggiore importanza alla purità della causa che alla leadership carismatica.
L’impatto della scomparsa di Bin Laden sulle organizzazioni affiliate ad al-Qaida potrebbe essere modesto. Organizzazioni regionali come al-Qaida nella Penisola arabica (Aqap), al-Qaida nel Maghreb islamico (Aqim) e al-Qaida in Iraq (Aqi) operano già ora a livello principalmente locale, con una larga autonomia, secondo una sorta di modello di franchising. Dopo la morte di Bin Laden esse potrebbero prendere ulteriormente le distanze dalla missione su scala globale professata dal fondatore; tanto più se il nuovo “emiro” (comandante) di al-Qaida godrà di minore autorità e influenza. Queste organizzazioni di ambito regionale potrebbero comunque essere interessate a realizzare attentati in nome di Bin Laden per acquisire prestigio, anche in una logica di competizione tra loro.
Desiderio di vendetta
Le reazioni all’uccisione di Bin Laden non si sono fatte attendere. Il 6 maggio alcuni siti jihadisti hanno diffuso un comunicato, considerato attendibile dagli analisti, in cui si riconosceva la morte dell’“emiro”, si proclamava la prosecuzione della guerra e si giurava vendetta contro gli Stati Uniti e i paesi disposti a sostenerli.
Il duplice attacco suicida del 13 maggio nel nord-ovest del Pakistan, rivendicato da Tehrik-i-Taliban Pakistan (Ttp) e costato la vita a più di ottanta reclute della polizia di frontiera pakistana, è stata la prima azione terroristica condotta per vendicare la morte di Bin Laden. Altri attentati seguiranno.
La morte dello “sceicco del terrore” suscita un desiderio di vendetta anche tra i militanti radicali islamici che vivono in Europa e in Nordamerica. Singoli individui o piccoli gruppi potrebbero decidere di agire anche senza direttive dall’alto. Nel breve periodo il terrorismo “cresciuto in casa” (homegrown) e “fai-da-te” potrebbe costituire la minaccia più pericolosa per i paesi occidentali.
Sfortunatamente la minaccia del terrorismo islamista non è destinata a venir meno con la scomparsa del suo celeberrimo “sceicco”.
(1) Si consideri, per esempio, il noto confronto, non privo di toni polemici, tra due importanti esperti di terrorismo, Bruce Hoffman e Marc Sageman, sulle pagine di Foreign Affairs, nel 2008. L’articolo di Hoffman (http://www.foreignaffairs.com/articles/63408/bruce-hoffman/the-myth-of-grass-roots-terrorism). La replica di Sageman e la controreplica di Hoffman (http://www.foreignaffairs.com/articles/64460/marc-sageman-and-bruce-hoffman/does-osama-still-call-the-shots).
(2) Si vedano i sondaggi condotti dal Pew Research Center: http://pewresearch.org/pubs/1977/poll-osama-bin-laden-death-confidence-muslim-publics-al-qaeda-favorability.
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