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Rivolte arabe

Se in Siria crolla il regime

5 Apr 2011 - Massimiliano Fiore - Massimiliano Fiore

Alla fine l’onda lunga della rivoluzione araba è arrivata violentemente anche in Siria, sorprendendo autorevoli commentatori e analisti che per mesi avevano ritenuto il regime di Bashar al-Assad immune dal cambiamento. Le proteste, iniziate in sordina a Damasco, si sono poi scatenate a Dara’a, piccolo centro agricolo vicino al confine con la Giordania, dopo l’arresto di alcuni studenti “colpevoli” di aver imbrattato i muri della scuola con scritte contro il regime. Proteste da subito fuori controllo, cui hanno aderito migliaia di persone chiedendo il ripristino delle libertà civili e la fine dello stato di emergenza in vigore dal 1963.

Emergenza e repressione
Per la prima volta in quarant’anni sono stati attaccati i simboli del regime. La sede del partito al potere è stata incendiata, le gigantografie di al-Assad sono state sfregiate e la statua di Hafez al-Assad (padre dell’attuale presidente e – a sua volta – capo dello stato dal 1971 al 2000) è stata rovesciata, in una sequenza che riporta alla mente un’altra piazza e una statua ancora più imponente, quella di Saddam Hussein in Piazza del Paradiso a Baghdad, abbattuta dagli iracheni entusiasti per l’arrivo degli americani nel 2003. Scene non immaginabili solo alcune settimane fa.

Le forze di sicurezza siriane hanno risposto brutalmente, uccidendo decine di dimostranti. Secondo Human Rights Watch, i morti sarebbero oltre 60. Ma la rivolta non si è placata, anzi si è estesa anche ad altre città, arrivando fino alla capitale, Damasco.

All’aggravarsi della situazione, il regime ha tentato di correre al riparo ordinando il rilascio di 260 prigionieri politici per lo più curdi e islamisti e annunciando l’aumento fino al 30% dei salari dei dipendenti pubblici. Il presidente si è anche impegnato a studiare una serie di riforme politiche mirate ad abrogare la legge d’emergenza, aprire a nuove formazioni politiche, allentare la censura sui media e concedere più potere alle organizzazioni non governative. Le riforme annunciate, se effettivamente attuate, sarebbero “a dir poco rivoluzionarie”.

Salto nel buio
L’opposizione non si fida delle promesse del presidente ed è nuovamente scesa in piazza dopo la tradizionale preghiera del venerdì per chiedere la fine del regime. Dovrebbe, tuttavia, essere attenta a ciò che desidera. La Siria non è un paese coeso e omogeneo come l’Egitto, ma una società multi-etnica e multi-religiosa, come l’Iraq e il Libano. La violenta rimozione del regime porterebbe, pertanto, a uno scontro senza fine tra le diverse fazioni.

La Siria si trova al centro di una fitta rete di vecchie e nuove alleanze all’interno del mondo arabo (Iran, Hezbollah, Hamas, Jihad islamica, Turchia) e un suo scivolare nell’anarchia e verso la guerra civile potrebbe avere conseguenze molto serie sui suoi alleati, oltre a modificare sensibilmente gli attuali equilibri di forza nella regione.

Silenzio di Teheran
Il fondamento della politica estera siriana è rappresentato dalla partnership con la Repubblica islamica d’Iran. Nata agli inizi degli anni ottanta quale strategia per contenere Baghdad, questa partnership si è rafforzata in seguito al sostegno del movimento sciita libanese Hezbollah e al contenimento della superiorità militare di Israele. Permettendo il sistematico trasferimento di armi iraniane di ogni tipo attraverso il suo territorio, Damasco ha garantito a Tehran un “vero e proprio avamposto di opposizione armata contro Israele” e, allo stesso tempo, si è assicurata un’influenza decisiva sulle dinamiche politiche libanesi.

Le autorità iraniane seguono con timore l’evolvere della situazione in Siria. L’eventuale rimozione di al-Assad potrebbe portare alla formazione di un governo a maggioranza sunnita che impedirebbe all’Iran l’accesso al Libano e ridurrebbe l’influenza di Hezbollah nel paese dei cedri. Non è certo un caso che la Repubblica islamica, dopo aver reagito con entusiasmo alle ribellioni in Tunisia, Egitto, Libia e Bahrain, abbia questa volta scelto il “silenzio-assenso” nei confronti delle azioni del regime siriano.

Una cosa è certa: qualsiasi cambiamento in Siria non potrà non avere un impatto sul Libano, un paese profondamente spaccato in seguito alla caduta del governo di Saad Hariri e alla decisione di affidare l’incarico di formare un nuovo esecutivo a Najib Mikati, amico personale di al-Assad e vicino a Hezbollah.

In Libano, la tensione politica tra lo schieramento anti-siriano e anti-iraniano “14 Marzo”, guidato dall’ex primo ministro Hariri, e il fronte “8 Marzo”, guidato da Hezbollah e appoggiato dall’Iran e dalla Siria, è aumentata notevolmente dall’inizio delle proteste in Siria, facendo temere nuovi scontri armati. Al-Manar (emittente televisiva di Hezbollah) e Cham Press (agenzia di stampa siriana molto vicina al regime) hanno esplicitamente accusato “membri del Movimento 14 Marzo di fomentare la protesta e di fornire soldi e armi ai ribelli siriani”.

Le notizie dell’esplosione di un ordigno di fronte a una chiesa nella Valle della Bekaa e gli scontri tra sunniti anti-siriani e sciiti pro-Damasco, davanti alla sede dell’ambasciata siriana a Beirut, “sembrano confermare i timori condivisi dalla maggioranza dei libanesi di pericolose e imminenti ripercussioni locali” della crisi siriana.

Preoccupazione turca
Anche la Turchia segue con attenzione la crisi siriana. Negli ultimi anni, Damasco è diventata il fulcro attorno al quale ruota la nuova ambiziosa politica mediorientale del primo ministro Recep Tayyip Erdogan e del ministro degli Affari esteri Ahmet Davutoglu, finalizzata alla creazione di un’area di libero scambio tra Turchia, Siria, Libano e Giordania annunciata lo scorso giugno.

Con il progetto la Turchia spera di rilanciare il proprio ruolo diplomatico nella regione e il volume degli scambi commerciali nel mondo arabo. Nel frattempo, Ankara e Damasco hanno già raddoppiato il volume degli interscambi, eliminato il sistema dei visti alla frontiera e avviato i lavori per l’istituzione di un consiglio di cooperazione strategica. Una lotta di potere in Siria potrebbe ritardare l’entrata in vigore dell’area di scambio prevista per la seconda metà del 2011 e porre un freno ad ulteriori iniziative.

Non sono solo gli amici a essere preoccupati per l’evoluzione della situazione, ma anche i “nemici”. Stati Uniti e Israele seguono con molta attenzione gli sviluppi della crisi e, nonostante le accuse mosse da al-Assad, restano estranei alle proteste in corso e sperano, anzi, che riesca a mantenere lo status quo.

Usa per la non ingerenza
Sebbene, successivi governi sia americani che israeliani abbiano ripetutamente criticato la Siria per l’alleanza con l’Iran, il rapporto con Hezbollah e il legame con le fazioni radicali palestinesi Hamas e Jihad islamica, Washington e Gerusalemme temono adesso che il regime laico di al-Assad possa essere sostituito da gruppi islamici fondamentalisti.

Il segretario di Stato americano Hillary Clinton ha fatto recentemente sapere che gli Stati Uniti considerano al-Assad un “riformatore” per cui non interferiranno negli affari interni siriani, mentre un articolo dell’autorevole quotidiano israeliano Haaretz ha definito al-Assad “il dittatore arabo più amato in Israele”.

Un paradosso del conflitto tra Siria e Israele è che, nonostante Damasco sia uno dei nemici irriducibili di Gerusalemme, non un solo colpo di artiglieria sia stato sparato dall’ottobre del 1973. A dispetto della forte retorica anti-americana e anti-israeliana, prima Hafez e poi Bashar hanno compreso che l’unico modo per recuperare le Alture del Golan, conquistate da Israele nel 1967, è attraverso il negoziato con Israele. Se al-Assad fosse deposto, Washington e Gerusalemme perderebbero un interlocutore che potrebbe essere disposto a firmare un trattato di pace con lo stato ebraico.

Solo qualche settimane fa, al-Assad si era detto pronto a riprendere negoziati di pace diretti con Israele. Coloro che a Gerusalemme sono favorevoli a restituire le Alture del Golan, in cambio della pace e della normalizzazione dei rapporti, temano che ogni prospettiva cada insieme al regime.

Tuttavia, è difficile immaginare che “rivolte popolari diffuse, ma sparpagliate riescano a rovesciare il regime”. Una posizione determinante a favore di al-Assad è quella dei comandanti militari alawiti che, temendo di essere allontanati dal potere e di essere perseguitati, si sono schierati dalla parte del presidente, una differenza fondamentale rispetto al caso tunisino e egiziano.

Fintanto che i comandanti militari rimarranno uniti e obbediranno al presidente, sarà molto difficile per l’opposizione abbattere il regime. Resta da vedere se le grandi famiglie industriali sunnite, che dominano l’economia e hanno sostenuto gli al-Assad per oltre quarant’anni in nome della sicurezza e della stabilità, continueranno a farlo.

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