Interventismo alla francese
L’attivismo della Francia in Libia ha fatto riemergere in Italia una serie di pregiudizi antifrancesi. Per comprendere l’approccio di Parigi alla “primavera araba” può essere utile analizzare alcuni presupposti delle scelte francesi, in particolare sull’intervento in Libia.
Primavera araba
La diplomazia francese è stata presa in contropiede dagli avvenimenti in Tunisia ed in Egitto, come clamorosamente emerso con le dimissioni del ministro degli esteri, Michèle Alliot Marie, che è servita da capro espiatorio per voltare pagina al Quai d’Orsay.
Ma per capire le mosse di Parigi bisogna valutare con attenzione i risvolti della “primavera araba” sulla politica interna francese. Svariati milioni di cittadini francesi sono di origini magrebine ed è naturale che l’opinione pubblica sia molto sensibile agli sviluppi interni delle società arabe. La rivoluzione tunisina ha quindi un’importanza e un significato particolari non solo per la politica estera di Parigi, ma anche per il dibattito nazionale francese sull’evoluzione democratica del mondo arabo.
Nel 2007 Nicolas Sarkozy aveva condotto una campagna elettorale imperniata sulla discontinuità, anche in materia di politica estera, annunciando una svolta nella politica mediterranea e africana della Francia. Nella prima parte del suo mandato era tuttavia tornato a una realpolitik ben poco riformista. La primavera araba lo ha spinto a tornare sui suoi passi.
Le élite arabe si formano spesso a Londra o a Parigi, in centri di eccellenza come la London School of Economics, la School of Oriental and African Studies, o SciencesPo. Esiste quindi un forte collegamento con le giovani generazioni della borghesia araba. Ciò ha rappresentato un ulteriore stimolo per Parigi (ma anche per Londra) ad aprirsi verso i movimenti di protesta della società araba.
Interventismo
L’ interventismo francese ha, d’altra parte, una lunga tradizione. Basti pensare all’azione di La Fayette in America o a quella di Napoleone in Italia, espressione di una logica da potenza europea. Più recentemente l’interventismo francese è riemerso nella forma dell’”ingerenza umanitaria”, un concetto rilanciato durante la presidenza di François Mitterrand negli anni ottanta. Ė in questo contesto che nel 1986 gli aerei Mirage e Jaguar francesi bombardarono la base libica di Ouadi Doum, mandando un chiaro segnale a un Gheddafi considerato troppo invasivo nel vicino Ciad.
Fra realpolitik africana e ingerenza umanitaria, la Francia si è sempre riservata la possibilità di utilizzare autonomamente la forza militare per interventi all’estero. Anche se nel 2009 la Francia è tornata a far parte del comando militare integrato della Nato, non ha però rinunciato a una sua capacità d’iniziativa autonoma. La forte spinta francese a favore dell’intervento in Libia e la rapidità con cui è stata avviata l’azione militare confermano questo approccio e spiegano le resistenze ad attribuire alla Nato il coordinamento politico della missione: la Nato è considerata infatti un’alleanza subordinata alla volontà nazionale, soprattutto se si agisce fuori del concetto di difesa collettiva.
Intellettuali e diplomazia
Il veloce riconoscimento del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) libico da parte della Francia illustra un’altra sfaccettatura dell’azione diplomatica francese. All’origine di questa decisione c’è stata infatti l’iniziativa dello scrittore-filosofo Bernard Henri Levy, che si è recato a Bengasi, mettendo in contatto i rappresentanti della resistenza libica con il presidente Nicolas Sarkozy. Per quanto ciò possa sembrare folcloristico, il ruolo dell’intellettuale nella politica estera francese si riallaccia a una lunga tradizione: da André Malraux a Régis Debray, numerosi sono gli esempi di intellettuali che hanno contribuito a far affermare, anche nella prassi, l’idea di una Francia che deve intervenire in nome di alcuni fondamentali principi.
Bisogna però osservare come, nel caso dell’intervento in Libia, si sia sviluppata una dialettica, non priva di tensioni, fra lo slancio umanitario di un Bernard Henri Levy e l’efficienza del neo-ministro degli Esteri, Alain Juppé. Già primo ministro e ministro degli esteri, Juppé è uno dei leader politici francesi più esperti. Inoltre, gode di un ampio margine di azione per avere pagato con una condanna penale le beghe di Jacques Chirac e del suo capo partito quando gestivano il comune di Parigi con troppa leggerezza. Anche Sarkozy gli è debitore per questo.
L’intervento di Bernard Henri Levy non è affatto piaciuto a Juppé. La frattura è stata però velocemente ricomposta e il tandem Sarkozy-Juppé ha dimostrato una grande efficacia nella costruzione di un consenso in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazione Unite, grazie anche a uno stretto coordinamento con Regno Unito e Usa.
L’azione francese in Libia è oscillata quindi fra slanci umanitari e azione diplomatica mirata, in linea con una tradizione consolidata della politica francese. Altrettanto importante, però, è stata la ricerca di un’unità di azione con gli alleati.
Triangolo con Londra e Washington
Anche se la Francia ha dichiarato di mirare alla formazione di un’ampia coalizione, con l’inclusione di partner arabi, la sua azione diplomatica e militare ha puntato soprattutto a consolidare il triangolo con Londra e Washington, che è stato un cardine della diplomazia francese del ventesimo secolo e ha continuato a svolgere un ruolo propulsivo anche dopo, al di là dei cambiamenti di leadership.
La Francia si autopercepisce come potenza che tratta alla pari non solo con l’altra potenza militare europea, il Regno Unito, ma anche con la potenza globale statunitense. D’altra parte, l’attivismo in politica estera è per la Francia anche un modo per smarcarsi dalla Germania, recuperando un margine di azione nei confronti di Berlino, che negli ultimi mesi ha esercitato un ruolo predominante in campo economico.
Nell’attivismo di Parigi sulla crisi libica si ritrovano dunque vari elementi tradizionali della politica estera francese. Voci critiche, sia in Francia che all’estero, hanno contestato questo approccio che metterebbe a repentaglio la coesione delle istituzioni europee e atlantiche, anche se il trasferimento alla Nato della gestione operativa della missione ha in parte placato queste preoccupazioni.
Ė chiaro in ogni caso che i cambiamenti di regimi in alcuni paesi arabi richiedono una revisione e un ri-orientamento anche della politica europea. Si deve a un’iniziativa di Sarkozy il progetto di “Unione per il Mediterraneo”, che si è poi rivelato fallimentare. Al di là del nome, che ha comunque una sua importanza, ci si aspetta adesso un forte rinnovo e rilancio della politica europea verso i paesi della sponda sud del Mediterraneo. In quel contesto non si può escludere che la politica estera francese torni nei binari multilaterali dell’Ue, ma fondamentale sarà il sostegno dei partner europei, a partire da quelli mediterranei.
.