Il minimalismo autolesionista dell’Italia in Libia
Più i giorni passano, più la matassa libica s’ingarbuglia: da un avvio che appariva la semplice ripetizione dei format egiziano e tunisino e che offriva ai paesi dell’area occidentale l’opportunità di prendersi rivincite da lungo attese nei confronti di Gheddafi, ci si trova ora di fronte a una riedizione dei Balcani anni ’90, senza tuttavia la volontà (e le capacità) di andare fino in fondo.
È una situazione sempre più di stallo, vuoi per motivi politici (quanto può essere considerato accettabile dalla comunità internazionale e segnatamente da quella araba un intervento sul terreno di truppe occidentali?), vuoi per la scarsa disponibilità di risorse (perfino il Regno Unito ammette di non avere riserve disponibili, in particolare di forze di terra, per un qualsivoglia dispiegamento in Libia), vuoi infine per il fatto che la consistenza militare degli insorti non è neanche lontanamente comparabile a quella dei croati o dei bosniaci e neppure a quella dei guerriglieri kosovari dell’Uck.
Due fronti
Il quadro della situazione rimane oltremodo problematico, con gli Stati Uniti che fin dall’inizio non avevano, almeno alla Casa Bianca e al Pentagono, particolari entusiasmi e alla prima occasione si sono sfilati da una partecipazione attiva (mantengono solo i cosiddetti ‘enablers’, cioè tanker, ricognitori, velivoli per la sorveglianza); con la Germania che ribadisce la sua disponibilità solo ad operazioni strettamente e rigorosamente umanitarie, cioè alla distribuzione di aiuti e derrate; con gli insorti che non sanno fare altro che lamentarsi perché la Nato non spiana la Tripolitania e proseguono la litania sulla distruzione dei propri mezzi che, assolutamente indistinguibili da quelli delle forze lealiste, sono stati colpiti con precisione chirurgica dai piloti francesi e britannici.
Così, le operazioni sul terreno si sono ormai invischiate in azioni di logoramento, principalmente su due fronti: l’assedio di Misurata, la cui resistenza evidenzia l’incapacità di Gheddafi di avere ragione di oppositori determinati, anche se scarsamente organizzati, in un contesto urbano; la regione controllata dai contendenti, a cavallo delle principali direttrici degli oleodotti che portano il greggio dai pozzi petroliferi ai terminali sul Mediterraneo.
In tutto ciò l’Italia si trova in una posizione assai scomoda: è certamente il paese che più ha da perdere. Non tanto e non solo per la questione dei flussi migratori, che ha un fortissimo impatto mediatico e politico, ma che non può, nelle attuali dimensioni, rappresentare un problema reale per la sesta, o settima potenza industriale del mondo. E neppure per la disponibilità di fonti energetiche: nel rapporto tra produttore e consumatore è probabilmente il primo che ha la posizione negoziale più debole.
Quello che rischiamo di perdere è da un lato un mercato potenziale di una certa consistenza alle porte di casa, dall’altro – e soprattutto – un territorio dove realizzare importanti opere infrastrutturali, dando respiro alle nostre imprese che in patria, prigioniere di veti ecologisti e localistici incrociati e di un pantano burocratico senza eguali, non riescono più a lavorare.
Paradosso Italia
Da questa posizione assai scomoda, l’immagine che il paese sta dando è quella di chi non sa che pesci pigliare, perdendo credito su tutti i fronti. Si consideri l’aspetto puramente militare: senza il supporto dell’Italia questa operazione aerea non si sarebbe potuta fare. Infatti, la Gran Bretagna non può schierare portaerei e ha bisogno della base di Gioia del Colle per i propri Tornado e Typhoon, la Francia non può certo illudersi di avere una capacità determinante con la trentina di velivoli imbarcati sulla Charles de Gaulle, né può attuare, se non una tantum, missioni complesse con più rifornimenti in volo partendo dalla madre patria (inclusa la base di Solenzara in Corsica) e dovendo comunque sempre contare sulla permeabilità dello spazio aereo italiano.
Nonostante questo ruolo essenziale per le operazioni giocato dal nostro paese, continuiamo a interrogarci amleticamente se sia o meno opportuno partecipare attivamente alle missioni di bombardamento contro il potenziale blindato libico. Lasciamo ad altri le disquisizioni etico-filosofiche e guardiamo ai fatti: l’armamento di precisione di cui sono dotati i nostri velivoli è tale da ridurre al minimo assoluto il rischio di ‘danni collaterali’; l’addestramento dei nostri equipaggi è tale da consentire agevolmente attività operative congiunte con i colleghi della coalizione; e una nostra partecipazione su un piede di parità potrebbe facilmente raddoppiare il potenziale offensivo disponibile.
Colpevoli equilibrismi
Peraltro, dal punto di vista politico, il nostro atteggiamento minimalista rischia di risultare perdente su tutti i fronti: gettato a mare Gheddafi, dobbiamo solo sperare che un’eventuale futura dirigenza tripolina sia ben disposta nei nostri confronti, tenendo conto che il gruppo di potere di Bengasi potrebbe avere anche altri referenti.
In tal senso appaiono di cruciale importanza i contatti ad alto livello di queste ore con i leader dei ribelli, che saranno coronati dalla visita del presidente del Consiglio nazionale di transizione libico, Mustafa Abdul Jalil, già precedentemente programmata e poi rinviata. Quanto ai rapporti con la coalizione, è ben evidente che la nostra capacità di farci ascoltare dagli alleati e quindi di influire sulle decisioni comuni è ai minimi livelli. In poche parole, per salvare capra e cavoli rischiamo di perdere entrambi.
Nel frattempo, vista la situazione di sostanziale stallo sul terreno, e il chiaro sostegno di una fetta ancora cospicua della popolazione della Libia nei confronti di Gheddafi, si stanno moltiplicando le iniziative di mediazione che vedono, paradossalmente, il fiero rifiuto degli insorti, debolissimi sul terreno, ma forti di un sostegno da parte della comunità internazionale che in realtà non si sa quanto possa durare.
Che la situazione per i paesi della coalizione sia scomoda è confermato anche dalle voci di corridoio: Sarkozy non sarebbe più del tutto restio ad una fase, possibilmente transitoria, in cui Gheddafi e la sua famiglia continuino a mantenere una qualche forma di potere e, secondo l’autorevole quotidiano britannico Guardian, anche a Londra ipotesi di tal fatta, pur se assai sgradite, stanno rientrando nel novero del possibile: sarebbe una giravolta ardita, che potrebbe preludere a una qualche forma di spartizione, unanimemente considerata un’inaccettabile iattura, ma a cui non dobbiamo farci trovare impreparati. In politica sono sempre necessari i ‘piani B’ e, se servono, anche i ‘C’ e ‘D’.
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