Come affrontare l’emergenza sbarchi
Quali iniziative concrete si possono assumere per gestire efficacemente il flusso di migranti dal Nordafrica? Vengono avanzate le più disparate proposte – dal “blocco navale” a interventi coattivi in acque internazionali – trascurando con troppa disinvoltura il contesto politico, alcuni principi fondamentali del diritto internazionale e gli insegnamenti delle esperienze passate.
La via maestra è attivare specifici meccanismi di cooperazione che responsabilizzino i paesi di provenienza dei migranti, evitando che questi ultimi si avventurino in viaggi disperati ed estremamente rischiosi. Un ruolo chiave spetta agli accordi e alle istituzioni multilaterali, in particolare all’Ue, attraverso l’agenzia Frontex.
Fenomeno ciclico
Tra il 7 ed il 9 marzo 1991 giunsero a Brindisi dall’Albania, con navi mercantili, circa 20 mila migranti in fuga dal disastro economico della dittatura comunista. A distanza di venti anni esatti, altre 20 mila persone fuoriuscite dalla Libia attraverso la Tunisia (loro paese di origine) sono approdate a Lampedusa in cerca di migliori condizioni di vita in Europa. Nel contempo migliaia di profughi sono ammassati in Libia e Gheddafi minaccia, per rappresaglia, di inviarli in Europa. Lo scorso 20 aprile è approdato a Lampedusa un peschereccio con 800 persone provenienti da vari paesi dell’Africa subsahariana.
In tutti questi anni l’immigrazione illegale via mare non si è mai arrestata, seguendo varie rotte. Il fenomeno tende quindi a ripetersi ciclicamente. Ma ogni volta sorgono dubbi, nell’opinione pubblica, sulle misure che è possibile adottare in mare per impedire esodi massicci e sull’efficacia del ruolo dell’agenzia europea Frontex. Esodi che sembrano favoriti dai paesi di provenienza che non esercitano adeguati controlli per impedire la partenza dalle proprie coste di imbarcazioni prive dei requisiti di navigabilità.
Il drammatico caso del recente naufragio di 250 persone nella zona marittima di ricerca e soccorso (Search and Rescue, Sar) di Malta ne è la riprova. Ci troviamo di fronte ad una matassa aggrovigliata in cui si intrecciano i principi del diritto internazionale, la politica europea, la continua emergenza italiana e le pretese di Malta.
In rosso, limiti delle zone Sar di Tunisia, Libia, Grecia e Italia, nonché di quella pretesa da Malta.
Bloccare le acque internazionali?
Ancora una volta si è sentito parlare in Italia – forse come effetto indotto dall’embargo navale della Libia decretato dalle Nazioni Unite – di “blocco navale” dei migranti. In realtà, è del tutto improprio usare questo termine. Non è infatti possibile applicare a persone in cerca di migliori condizioni di vita o a rifugiati politici e profughi le misure di interdizione e respingimento proprie di un conflitto armato.
Al di là delle acque territoriali vi sono, come è noto, le acque internazionali, in cui vige la libertà di navigazione. Una nave di qualsiasi bandiera, anche se imbarcazione di fortuna trasportante migranti, ha il diritto di navigare liberamente sino a che non cerchi di entrare illegalmente nelle acque territoriali e nella zona contigua di un altro Stato.
Il problema è che in molti casi la carenza di requisiti di navigabilità delle imbarcazioni dei migranti rende necessari interventi di soccorso.
Unica eccezione a tale regime, che si basa sulla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (Unclos), è l’ipotesi in cui sia lo stato di origine dei migranti ad impedire gli espatri clandestini sorvegliando le sue acque territoriali o richiedendo la collaborazione di un altro Stato per fermare in acque internazionali le imbarcazioni di propria bandiera o comunque a sé riconducibili.
Questo è stato fatto dall’Albania nel 1991 e poi nel 1997 con l’Accordo mediante scambio di lettere con l’Italia del 25 marzo di quell’anno. E questo avevano concordato Libia e Italia con l’Accordo di amicizia del 2008 (la cui applicazione è di fatto sospesa) nel quadro delle azioni adottabili a livello regionale per contrastare il traffico illegale di migranti via mare secondo il Protocollo di Palermo del 2000.
L’esperienza di tali accordi ha rivelato la difficoltà di gestire l’interdizione marittima dei migranti. Tutti ricordiamo la tragica collisione tra una motovedetta albanese e la Corvetta Sibilla della Marina Militare dovuta alla proterva incoscienza dello scafista albanese. È noto anche che un procedimento penale pende dal 2009 per ipotetici reati legati alle attività svolte in mare dalle nostre forze di polizia nel quadro delle intese con la Libia.
Diverso il caso in cui sia lo Stato di origine a controllare che non avvengano espatri clandestini e a intervenire per mettere in salvo i migranti quando sono ancora in navigazione nella propria zona Sar. La Tunisia, che negli anni passati aveva sempre adottato una simile politica, sembra ora orientata a continuare sulla stessa via. Correttamente l’Italia sta quindi tentando di attivare una cooperazione operativa con la Tunisia, a ridosso delle sue acque territoriali e all’interno della sua zona Sar, per facilitare l’attività di soccorso da parte tunisina. Anche la Francia dovrebbe seguire, congiuntamente all’Italia, questo modus operandi.
Disputa con Malta
Quello del soccorso in mare è, da qualsiasi punto si analizzi l’immigrazione in mare, il punto cruciale. L’obbligo di soccorso incombe, oltre che ai singoli naviganti, al paese responsabile del servizio di ricerca e soccorso all’interno di un’area marittima denominata zona Sar. Questa la semplice regola enunciata nell’articolo 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos) che tanti problemi crea a Malta in relazione al principio stabilito dalla Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (Solas) e dalla Convenzione di Amburgo del 1979, secondo cui i migranti salvati vanno sbarcati in un luogo sicuro (“place of safety”) nel paese responsabile della zona Sar.
Malta non accetta il principio, sostenendo invece che tale luogo debba essere quello più vicino all’area di soccorso, anche se ricadente al di fuori della propria Sar. La disputa riguarda Lampedusa, che in alcuni casi è effettivamente il luogo più vicino, ma che l’Italia ha da tempo dichiarato inadeguato dal punto di vista logistico e sanitario. Il paradosso è che l’isola fa parte – come ovvio – della Sar italiana, ma ricade anche in quella reclamata da Malta, la cui superficie è di ben 250.000 km2.
Benché proclamatasi responsabile del soccorso in questa enorme area marittima, il piccolo Stato maltese non ha tuttavia le capacità di assicurare il servizio “adeguato” ed “efficace” richiesto dall’Unclos. Tant’è che i mezzi maltesi in molti casi – come avvenuto nella recente tragedia – richiedono l’intervento italiano. Ma all’Italia non interessa acquisire parte della Sar maltese, né tantomeno farne oggetto di scambio con aree della piattaforma continentale o della futura Zona economica esclusiva (Zee): queste non sono semplici aree di responsabilità, ma zone di esercizio di diritti sovrani con regimi del tutto differenti, come risulta dalla cartina che riporta in nero i loro confini politici definiti da trattati.
Per l’Italia il problema è invece, oltre alla scandalosa sovrapposizione della Sar maltese con l’area di Lampedusa, quello di mettersi al riparo dagli effetti dell’inadeguatezza dell’organizzazione Sar maltese in assenza di un’intesa dedicata alla reciproca collaborazione nello spirito dell’Unclos.
Nuovo ruolo per Frontex
Frontex è stata sinora la grande assente nella gestione dell’emergenza immigrazione verso Malta e l’Italia. Ciò si deve da un lato alla scelta da parte dell’Italia di un approccio basato sull’intesa bilaterale con la Libia, dall’altro al rifiuto maltese di accettare le linee guida della Commissione europea, che prevedono che lo sbarco dei migranti salvati avvenga in un porto del paese che ospita le operazioni di Frontex.
L’agenzia europea ha invece svolto un ruolo rilevante nel sostenere la Spagna nell’applicazione dei suoi accordi di respingimento con il Senegal. Basti ricordare che nel 2007 un’unità della Guardia Costiera italiana, operando sotto l’egida di Frontex, ha riaccompagnato a Dakar un mercantile con varie centinaia di migranti diretti alle Canarie.
Frontex ha ora però la possibilità di adottare regole finalmente condivise da tutti i paesi europei. Italia e Francia hanno infatti proposto che l’agenzia – sul modello dell’ipotizzata collaborazione con la Tunisia – svolga operazioni nella zona Sar dei paesi di provenienza in modo da trasportare i migranti nei porti da cui sono partiti.
La via maestra dell’approccio multilaterale
L’approccio multilaterale è ora, più che mai, l’unica strada per impedire che i migranti si avventurino in viaggi che li espongono a enormi pericoli (si valutano in 20 mila i deceduti in naufragi accaduti nel Mediterraneo dal 1988) e per responsabilizzare i paesi di provenienza. Il soccorso in mare va quindi svolto in prossimità delle loro acque territoriali. Allo stesso modo va responsabilizzata Malta con una gestione della sua Sar aperta alla collaborazione con i paesi vicini e con Frontex.
Certo, resta il problema del riconoscimento dello status di rifugiato o della concessione dell’asilo ai migranti soccorsi, che tuttavia non è possibile demandare ad unità operanti in mare.
Cosa fare infine delle migliaia di profughi che stazionano a Misurata o in altri porti e che la Libia minaccia di far partire? L’unica soluzione sembra al momento quella dell’intervento in Libia dell’operazione di assistenza umanitaria denominata “Eufor Libya”, approvata lo scorso primo aprile dal Consiglio dell’Unione europea. La missione, a guida italiana, prevede infatti il contributo all’evacuazione dei profughi. Questa assistenza è però subordinata alla richiesta dell’Ufficio dell’Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), che, però, stranamente, non è ancora stata presentata.
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