Rivolte arabe, il pesante passivo dell’Italia
In Italia la crisi libica ha dato adito all’ennesima edizione di un dibattito trito e astratto che, pur tra dotte citazioni di Erodoto e Sant’Agostino, di Machiavelli e Sun Zu, è ruotato attorno ai soliti quesiti: se il paese sia in guerra o in missione di pace e se l’uso dello strumento militare sia giustificato e abbia fini nobilmente umanitari oppure contrario ai dettami della Costituzione e mosso da biechi interessi, come sono sempre quelli relativi al gas e al petrolio, di cui siamo tuttavia allegri consumatori. Intanto, la crisi è sfociata in un serio insuccesso di politica estera, probabilmente gravido di conseguenze durature.
Trasformazione epocale
Ancora una volta si è persa l’occasione per una riflessione adeguata su come sta cambiando la conflittualità nel mondo, sui modi per legittimare l’impiego della forza e per limitarne il più possibile le conseguenze. E sul ruolo, in questo contesto, delle istituzioni internazionali e delle “coalizioni dei volonterosi”. Tutte cose che non si lasciano catalogare facilmente nelle categorie di guerra giusta o ingiusta, di difesa o attacco, eccetera.
Ancor più grave è che, nello specifico degli eventi che hanno improvvisamente interessato un’area di così acuto interesse geopolitico e geoeconomico per il nostro paese, come il Nord Africa e il mondo arabo in generale, non si sia saputo cogliere il significato della trasformazione avviata, pur nell’inevitabile incertezza sulla sua portata e durata. Ad esserne investito è l’intero quadro internazionale, in primo luogo quello euro-americano in modi anche paradossali, se li rapportiamo alla nostra esperienza storica. Vediamone alcuni esempi.
Il movimento popolare, che dalla Tunisia si è sviluppato in una spontanea reazione a catena, propagandosi e autosostenendosi mediante le ultime tecnologie di comunicazione, si è rivolto contro regimi e leader autocratici, con cui gli Stati Uniti e i paesi europei avevano stabilito strette convivenze e connivenze, ove meno ove più (e ove troppo, come nel caso dell’Italia), tanto da essere colti in flagrante reato di incertezza e ambiguità nelle loro reazioni agli eventi inattesi, sorprendentemente inattesi (se si eccettuano pochi centri di studio, fra quali crediamo di poter annoverare lo IAI).
Tuttavia i manifestanti che si sono riversati nelle piazze arabe non hanno rivolto la loro ira contro l’Occidente. Non vi sono state bandiere americane bruciate (e neppure israeliane), ma solo bandiere nazionali sventolate, con l’eccezione della Libia, dove i rivoltosi agitano un vessillo diverso da quello del regime.
Cautele americane
Lo stesso movimento di rivolta, caratterizzato da un’età media bassa, da un livello culturale elevato e da una partecipazione femminile variabile, ma certo maggiore che in ogni precedente occasione, può esser visto come l’estensione popolare di quell’uditorio campione che nel giugno del 2009 aveva assistito al discorso di Barack Obama all’università del Cairo.
Eppure la reazione della stessa amministrazione Obama al moltiplicarsi delle notizie e delle immagini dalle piazze tunisine e poi soprattutto di quelle egiziane, è stata, in una prima fase, esitante fra diverse esigenze e interessi: da un lato, l’utilità del traballante Mubarak nella strategia americana nel Medio Oriente e la volontà di non apparire come fomentatore esterno del movimento; dall’altra, l’istintiva simpatia per le rivendicazioni democratiche e l’imperativo di stabilire un ponte con le nuove, ancorché incerte, leadership.
La prospettiva di una guerra civile in Libia ha evidenziato ulteriormente le cautele di un’America “reticente”, “riluttante”, “selettiva”, “frugale”, per citare solo alcuni degli aggettivi che hanno avuto corso fra commentatori e politologi. Gli imperativi erano diversi: non perdere influenza in un’area in sommovimento, critica per gli interessi nazionali, ma nello stesso tempo non impegnarsi in un nuovo conflitto che coinvolge l’Islam e non ritrovarsi isolati. Donde una nuova insistenza sullo strumento multilaterale (Onu e, forse prematuramente, la Corte penale internazionale) e sul coinvolgimento degli europei, chiamati, come nella crisi nei Balcani, ad assumersi le dovute responsabilità nel loro vicinato.
Divisioni europee
In verità l’Europa ha risposto in maniera più pronta e meno sfuggente che ai tempi di Milosevic, dimostrando fra l’altro che il legame transatlantico, dato periodicamente per morto, è poi sempre lì, estrema ratio. Dopo la loro buona parte di esitazioni, o anche paurose oscillazioni, i governi di Parigi e di Londra hanno preso la guida della reazione militare alla repressione di Gheddafi, sviluppando un’efficace azione diplomatica in sede Onu sulla base di un’intesa non subalterna con Washington, coinvolgendo una pur ambigua Lega araba, e infine ricorrendo allo strumento Nato, per chiudere il cerchio.
Questo profilo eccezionalmente alto degli europei in una crisi internazionale è stato tuttavia accompagnato da una manifestazione plateale delle loro divisioni, superiore se possibile ad ogni precedente. L’astensione dell’ambasciatore tedesco al Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulla risoluzione che ha autorizzato l’azione militare e il riconoscimento unilaterale del Consiglio nazionale di transizione in Cirenaica da parte di Sarkozy il giorno prima del vertice europeo che doveva discutere della risposta alla crisi libica, non sono che due esempi di una cacofonia sistematica. Dalla quale, tra l’altro, è risultata definitivamente confermata l’irrilevanza degli strumenti di politica estera creati con il trattato di Lisbona.
Isolamento italiano
Il passivo per l’Italia è pesante. Le sue voci più onerose non sono tanto il mancato invito alla teleconferenza dei quattro grandi occidentali alla vigilia del composito vertice di Londra, né la solitudine dinanzi all’afflusso eccezionale di migranti e profughi, come i media italiani tendono a far credere. In entrambi i casi, non mancano giustificazioni oggettive.
Più grave è stata l’incapacità, fin dall’inizio, di trovare una strategia di uscita dall’imbarazzo che, come detto, non era certo solo nostro. David Cameron, colto dalla rivolta mentre stringeva mani di autocrati nel Golfo, è riuscito a recuperare leadership. Il presidente francese, vilain a Tunisi, è diventato eroe a Benghasi. La Merkel sembra poter rientrare nel gioco dopo lo scivolone dell’astensione della Germania sulla risoluzione Onu.
Il nostro presidente del Consiglio italiano ha invece sperimentato, com’era prevedibile, gli effetti perversi di quella politica estera “personale”, di cui è sempre stato convinto cultore. Donde il suo finir di essere “a Dio spiacente e agli inimici suoi” in quasi ogni paese o contesto di coalizione. Anche nella cacofonia europea, di cui l’Italia è ad un tempo vittima e partecipe.
Ma a ben vedere anche la cultura e i media dovrebbero fare un esame di coscienza, interrogarsi sulla tradizionale difficoltà nazionale, verificabile sull’intero arco dei 150 anni di unità, ad afferrare che la politica estera è sempre un insieme di idealismo e di realpolitik, di finalità e di fattibilità, di iniziativa autonoma e di reattività a eventi esterni e imprevisti. A cui si è aggiunta, negli ultimi cinquant’anni, la necessità di combinare l’interesse nazionale con quello comune dell’Unione europea e, in qualche misura, delle altre istituzioni multilaterali, di cui siamo parte.
E infine oggi bisogna saper cogliere, come si diceva sopra, una certa metamorfosi nella natura della violenza internazionale e il ruolo crescente delle società civili fra loro interconnesse, di cui le folle di Piazza della Casbah a Tunisi e di Piazza Tahrir al Cairo non sono che i segni visibili più recenti. Ispiriamoci pure alle Guerre del Peloponneso, alla Città di Dio e al Principe, ma per adattarli alla realtà che ci circonda, non viceversa.
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