L’Italia tra allarmismo e realpolitik
Le proteste in Libia mettono a dura prova i paesi occidentali ed in particolar modo quelli limitrofi, come l’Italia. La necessità di proteggere interessi nazionali si scontra con il bisogno, profondo e insopprimibile, di libertà e democrazia che i manifestanti di tanti paesi stanno esprimendo. Nel contesto italiano, il contrasto tra imperativo morale e tornaconto politico è particolarmente marcato, a causa dei timori per le conseguenze che l’eventuale caduta del regime di Gheddafi potrebbe avere sui flussi migratori.
Non “disturbare”
Quando sono apparse le prime notizie sulle proteste in Libia il 16-18 febbraio, il governo Berlusconi ha subito messo in chiaro la sua posizione. Dicendosi preoccupato per quanto stesse avvenendo in Libia, Berlusconi ha reso noto di non aver sentito il suo amico Gheddafi per non “disturbarlo” in un momento così delicato. Il Presidente del Consiglio ha anche espresso preoccupazione “per quel che succede nel Nord Africa e per quello che potrebbe accadere a noi se arrivassero tanti clandestini” (La Repubblica, 19 febbraio 2011).
Il premier italiano ha poi cambiato tono forse anche in risposta alle accuse di noncuranza verso i fatti drammatici di Bengasi e successivamente di Tripoli. Il 21 febbraio si è detto infatti “allarmato per l’aggravarsi degli scontri e per l’uso inaccettabile della violenza sulla popolazione civile” (Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2011). Nonostante questo, come osservato da Sergio Romano, la risposta italiana rimane legata ad una realpolitik tanto cinica quanto controproducente.
Certo, a livello di parole il governo italiano non si è più tirato indietro. Il 23 febbraio il ministro degli esteri Franco Frattini ha detto che la situazione in Libia è “grave, gravissima”, il cui “tragico bilancio – ha aggiunto – sarà un bagno di sangue” (ministro degli Esteri, 24 febbraio 2011). Il ministro ha quindi invitato l’Unione europea e l’intera Comunità internazionale a “compiere ogni sforzo per impedire che la crisi libica degeneri in una guerra civile dalle conseguenze difficilmente prevedibili”.
Frattini ha appoggiato sia la linea adottata dalla Lega Araba il 22 febbraio di condanna e sospensione di ogni violenza che la proposta della Commissione europea di imporre sanzioni al regime libico. È anche importante sottolineare un’altra presa di posizione dello stesso ministro secondo cui per troppo tempo l’Occidente ha compiuto l’errore di “sostenere i regimi autoritari e illiberali” come antidoto al fondamentalismo islamico (Camera dei Deputati, 23 febbraio 2011).
Seguire la corrente
Nei primi giorni della crisi, in parallelo alla condanna del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’Italia si è detta successivamente disponibile, non senza qualche riserva, a partecipare alle sanzioni europee nei confronti del regime libico che includono embargo sulla vendita di armi e congelamento dei beni libici. Tuttavia, a livello europeo queste proposte sono state lanciate da Francia e Regno Unito e l’Italia ha più che altro seguito la corrente. Il 1° marzo il Presidente del Consiglio ha sottolineato che l’Italia “sarà perfettamente in linea con quanto deciderà la comunità internazionale” (Ap, 1 marzo, 2011).
L’incapacità del governo italiano di farsi promotore di un’azione congiunta a livello internazionale per fermare la tragedia umanitaria in Libia e al confine con la Tunisia e l’Egitto è grave e merita più di una riflessione. Nonostante il rapporto privilegiato che l’Italia ha vantato con la Libia per decenni, il nostro paese ha giocato un ruolo secondario nella crisi degli ultimi giorni. Uno dei motivi che spiega la mancata presa di posizione del governo italiano è legato al trattato di amicizia firmato nell’ agosto del 2008.
Il 26 febbraio, tuttavia, il ministro della difesa Ignazio La Russa ha reso noto che il trattato di amicizia era stato di fatto sospeso. Per quanto la situazione sia in costante evoluzione e quindi qualsiasi giudizio inevitabilmente provvisorio, una cosa è già chiara: l’irrisolutezza del governo italiano circa un’azione umanitaria congiunta si pone in netto contrasto rispetto alle proposte specifiche tese ad affrontare la cosiddetta “emergenza profughi”.
Approccio emergenziale
Nei primi giorni della crisi libica il dibattito politico italiano si è concentrato sulla questione dei “clandestini”. Il 23 febbraio il ministro degli interni Roberto Maroni ha proposto di discutere in seno al Consiglio europeo di Bruxelles un sistema europeo di asilo comune. Il Viminale ha anche richiesto il rafforzamento dell’agenzia europea Frontex “per farne uno strumento realmente operativo”, e migliorarne la sinergia con gli altri organismi e con Europol in relazione alle possibili minacce terroristico-criminali (Ministero dell’Interno, 23 febbraio 2011).
Numerose speculazioni circa possibili afflussi di immigrati e richiedenti asilo hanno riempito le prime pagine dei giornali italiani. Secondo Frattini è possibile che il 10 per cento o il 15 per cento dei due milioni di stranieri attualmente in Libia si metta in viaggio verso Cipro, Malta, Grecia e Italia. In un suo discorso alla Camera il ministro ha ipotizzato che si tratti di “300.000, 250.000, 350.000 persone” (Camera dei Deputati, 23 febbraio 2011). Frattini e Maroni hanno pertanto lanciato un appello a Bruxelles affinché l’Italia non venga “lasciata sola.”
Tuttavia, come già sostenuto dalla portavoce in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), Laura Boldrini, questo approccio emergenziale è pericoloso perché non si tratta solo di sbarchi di “clandestini” verso l’Italia. La Boldrini si è detta invece allarmata per la “caccia allo straniero africano” che si sta consumando in Libia (La Repubblica, 24 febbraio 2011). Non è una novità il fatto che nel corso degli anni gli stranieri africani in Libia abbiano subito discriminazioni sistematiche da parte del regime di Gheddafi.
Secondo l’Organizzazione Internazionale per la Migrazioni dall’inizio delle proteste in Libia decine di migliaia di tunisini ed egiziani hanno lasciato la Libia per la Tunisia o per l’Egitto. Inoltre centinaia di immigrati africani si stanno muovendo verso il Niger e, in generale, verso sud (Oim, 24 febbraio 2011). Cosa implica tutto questo per l’Italia e le sue relazioni con la Libia e per l’assetto geopolitico che farà seguito a questa rivoluzione?
L’opportunità dell’Italia
Nella storia delle relazioni tra Italia e Libia, sia i governi di centro-destra che quelli di centro-sinistra hanno fatto l’impossibile per mantenere col regime di Gheddafi i migliori rapporti possibili, cercando di convincere l’Occidente che in fondo non si trattasse di un leader tanto impresentabile e proponendolo come interlocutore privilegiato nel nord Africa. Questo è riconducibile al delicato equilibrio di interessi che lega l’Italia alla Libia.
Come ha osservato Roberto Aliboni su questa rivista “la posta in gioco per il nostro paese è molto alta e l’imprudente politica del governo rischia di scaricare su di esso i risentimenti della Libia che uscirà dalla crisi attuale”. Le proteste e i cambiamenti radicali che stiamo osservando nel mondo arabo parlano chiaro: un approccio cinico è tanto ingenuo quanto nocivo (Economist, 24 febbraio 2011). Sono i cinici, e non i visionari, ad essere incapaci di spiegare questi fatti storici nel mondo arabo a fornire delle risposte adeguate. Solo nei prossimi mesi saremo in grado di analizzare e meglio comprendere come l’Italia si saprà riposizionare di fronte a queste nuove sfide nel contesto Euro-Mediterraneo.
Tuttavia, nel corso della prima settimana dall’inizio della crisi libica, il governo italiano ha confermato la linea di politica estera preesistente fondata su interessi molto ristretti. Sentimenti xenofobi ed emergenziali ci impediscono di rispondere in maniera positiva e costruttiva. Solo un approccio meno cinico e che trascenda, senza tuttavia negare, la questione del flussi migratori, può permettere all’Italia di giocare un ruolo efficace nel ricostruire la trama complessa delle relazioni euro-mediterranee. La questione dell’immigrazione e la situazione in Libia offrono delle opportunità al governo italiano per concepire una visione geopolitica internazionale più ampia e perspicace. La nostra sfida sta quindi nel coniugare una politica assennata e utile per il paese con il bisogno di giustizia sociale che tutti avvertiamo.
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