Catastrofe Libia
Nel primo decennio di questo secolo arabi e musulmani sono entrati in collisione con gli Stati Uniti e i paesi occidentali non per l’impegno di questi ultimi in favore di una riforma democratica nei loro paesi, ma per il modo e la doppiezza con cui vi hanno dato seguito: sulla punta delle baionette, con un forte disprezzo culturale e continuando ad appoggiare di fatto i regimi autoritari locali in nome dei propri interessi geopolitici ed economici.
Obama accantona la “grande strategia”
Con il discorso del Cairo del 4 giugno 2009, il presidente Obama ha cercato di superare questa contrapposizione con arabi e musulmani, garantendogli che gli Usa intendevano cambiare registro: avrebbero rinunciato alla doppiezza e all’unilateralismo per sostenere senza imposizioni, ma con ancora maggiore convinzione, la riforma democratica nei loro paesi. “Obama, ti amiamo!”, sembra, secondo la trascrizione ufficiale, abbia gridato qualcuno dal pubblico. Che poi, probabilmente, si è unito al popolo di piazza Tahrir.
L’orientamento annunciato da Obama al Cairo esclude l’imposizione della democrazia sulla punta delle baionette o attraverso la propaganda, ma non l’impegno a favorire l’avvento di regimi democratici o la caduta di quelli autoritari, né un’eventuale ingerenza, laddove ne ricorrano le dovute condizioni di consenso e legalità. Al contrario, rende più stringente questo impegno.
La decisione dell’amministrazione Obama di non intervenire a sostegno dei libici – che cercano di abbattere un dittatore, per di più psicopatico, sotto il cui durissimo tallone stanno da quarantadue anni – è in stridente contrasto con la “grande” strategia volta a rivoluzionare i rapporti fra Islam e Occidente in nome del comune interesse alla democrazia e alla libertà.
La linea del non intervento è infatti essenzialmente dettata dalle preoccupazioni per gli interessi americani nella regione. Si ispira, quindi, al realismo nazionale che guidava la politica precedente. L’idea su cui si fonda è che la Libia non sia di rilevante interesse strategico per gli Usa e quindi non meriti un intervento. La “grande strategia” che, stando allo stesso Obama, reggerebbe la politica americana nella regione è stata così accantonata. Ciò fa sorgere gravi dubbi: o Washington non ha una chiara strategia, oppure sono cambiate le parole, ma non la sostanza.
Nuova frattura con gli arabi
Mentre l’amministrazione ritiene che un atteggiamento più interventista sarebbe politicamente controproducente, non vede che proprio la scelta di non intervenire può creare una nuova frattura con arabi e musulmani. Questi ultimi si aspettano infatti che gli americani appoggino i libici in rivolta contro Gheddafi. È quanto hanno dichiarato prima il Consiglio di Cooperazione del Golfo e poi la Lega Araba, ma, innanzitutto, il Consiglio dei rivoluzionari libici. Gli arabi considerano una colpa il mancato appoggio agli insorti libici contro un regime considerato miscredente, folle e anti-arabo, così come era colpevole ai loro occhi la mancata o debole protezione dei bosniaci negli anni novanta.
Mentre gli Usa pensano che la politica di non interferenza sia in linea con le aspettative arabe e con lo sforzo di ricucire il rapporto con l’Islam compromesso da George W. Bush, gli arabi vi vedono l’ennesima prova dei sentimenti anti-musulmani degli americani e degli occidentali in genere. Perciò, essa rischia di essere non meno controproducente di quella interventista del passato.
Esitazioni e paure europee
Ciò vale anche per la comunità internazionale nel suo insieme e per l’Europa. Mentre i libici in rivolta muoiono sotto il tiro delle ben equipaggiate forze pretoriane di Gheddafi e Bengasi sta ormai per essere ripresa, gli europei – che, al contrario degli Usa, hanno forti interessi strategici in gioco – hanno assunto un atteggiamento analogo: minacce a Gheddafi, incoraggiamenti ai rivoluzionari, ma totale assenza di misure concrete.
Francia e Regno Unito hanno propugnato un intervento, ma si sono scontrate con l’atteggiamento passivo e attendista degli altri stati membri dell’Ue. La principale preoccupazione degli europei sembra quella di assicurare i libici che da parte loro non ci sarà nessuna interferenza e che essi saranno lasciati liberi di costruire il proprio futuro nel modo che più gli piacerà. “Il Consiglio Europeo – si legge nella dichiarazione dell’11 marzo scorso – rende omaggio al coraggio dimostrato dal popolo della regione e riafferma che sta ad essi decidere il proprio futuro attraverso mezzi pacifici e democratici”. Quest’impegno a non interferire ha senso per l’Egitto e la Tunisia, ma nel caso della Libia è fuori luogo e suona anche un po’ grottesco.
Le discussioni sono andate avanti per circa due settimane. Ormai, un intervento è fuori tempo e anche il dibattito sulla no-fly zone ha smesso di avere senso. Se intervento ci sarà, non sarà per rovesciare Gheddafi, ma per esercitare una pressione attraverso sanzioni e altre misure, che accresceranno le sofferenze dei libici, senza incidere troppo sul regime.
Già frustrata nel quadro israelo-palestinese, la “grande strategia del Cairo”, che mirava a riabilitare l’immagine degli Usa presso le popolazioni del Medioriente, finirà con l’essere messa in questione, il che getterà discredito su Washington. La politica americana incontrerà nuove difficoltà in Medioriente, con un inevitabile impatto negativo anche sulla capacità di azione degli europei.
Restaurazione e caos
A più breve termine, se Gheddafi riprenderà il pieno controllo del paese, assisteremo a inaudite rappresaglie sui cittadini libici. Ciò aggraverà la già spaventosa crisi umanitaria, con ripercussioni sui paesi arabi ed europei più vicini. Il movimento di protesta nel Nord Africa e in Medio Oriente si sentirà tradito, mentre ne trarranno motivo di conforto i regimi contestati.
In Libia si potrebbe avere una completa restaurazione dell’ordine, a prezzi che si possono immaginare, ma è anche possibile che si radichi una resistenza e che il regime non riesca a ristabilire il pieno controllo sul paese. Questa volta, a differenza del passato, non c’è stata una semplice rivolta, ma una guerra civile.
D’altra parte, il regime, costruito nel vuoto istituzionale e politico, ha avuto chiaramente difficoltà a reagire. Perciò, si potrebbe aprire in mezzo al Mediterraneo uno spazio di caos e disordine, se non proprio uno stato fallito, che costituirà innanzitutto per l’Europa, ma anche per i paesi arabi, un grave problema.
Infine, il regime libico restaurato cercherà di punire soprattutto gli europei, e in particolare l’Italia, per avergli girato le spalle. Ci sarà un forte riorientamento geoeconomico. Né si può escludere, data la personalità del colonnello e i suoi precedenti, qualche azione sovversiva.
Nell’insieme, a meno di decisi ripensamenti, si delinea un disastro politico e strategico, di cui peraltro le classi dirigenti occidentali non paiono rendersi conto. Ha ragione il noto giornalista Rami Khouri, sulle colonne del Daily Star (12 marzo) a notare la futilità di ogni discussione se l’intervento sia legale o meno e se sussistano le condizione per attuare l’obbligo di protezione delle popolazioni civili, di fronte all’evidenza di un popolo che in modo inequivoco vuole che il tiranno venga cacciato e che si stabilisca un regime politico normale.
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