Obama e i militari egiziani
In una recente intervista alla “Presse” di Algeri, il sociologo Nadji Safir ricorda che quando nel 1952 il generale Muhammad Naguib si recò da re egiziano Faruk per deporlo, questi gli raccomandò di avere cura delle forze armate, vero zoccolo unificante dello stato egiziano. Con Hosni Mubarak è caduta la veste civile che i militari avevano indossato da Naguib in poi, passando per Nasser e Sadat. Ora hanno ripreso in mano il potere anche formalmente, senza mediazioni di sorta.
Si è così chiuso il moto che ha scosso l’Egitto per diciotto giorni. Non con l’instaurazione di un regime nuovo, civile e democratico, ma con il ritorno alla radice militare dello stato egiziano, che risale alla casta militare dei mamelucchi, è stata rafforzata e modernizzata nella prima metà dell’ottocento dall’autoritarismo militare di Mohammed Ali e, dopo una parentesi liberale all’inizio del novecento, è riemersa nel secondo dopoguerra. Ma cosa accadrà da qui in poi?
Modello turco o pakistano?
Non è facile decifrare le intenzioni dei militari del Consiglio Supremo delle Forze Armate dell’Egitto, che hanno destituito Mubarak. Forse neppure loro hanno per ora le idee chiare. Alcuni pensano che si apprestino a percorrere una strada simile a quella dei militari turchi, sotto la cui tutela si è sviluppato un regime, con molte mancanze, ma sostanzialmente democratico. Ma l’esperienza turca è diversa perché, almeno a partire dal dopoguerra, si è svolta nel quadro delle alleanze occidentali ed europee, da cui è stata condizionata (oltre che provenire da un’esperienza ottomana aperta alle riforme e ben diversa dall’assolutismo di Mohammed Ali).
Perciò, sul Daily Star Fareed Zakaria reputa che, con i militari a gestire la transizione, l’Egitto potrebbe diventare più simile al Pakistan che alla Turchia. Peraltro l’Egitto aveva già molti tratti comuni con il Pakistan (con la differenza che i militari del Pakistan, invece di combattere gli islamisti, hanno cercato di servirsene, con risultati che ora si rivelano anche più destabilizzanti dell’autoritarismo egiziano).
Che significato avrebbe un’evoluzione di tipo pachistano? Potrebbe garantire gli interessi geopolitici dell’Occidente, quali si sono manifestati dal 1978 ad oggi, ma certo non consentirebbe la riforma democratica chiesta dal popolo di piazza Tahrir. Sarebbe anzi un regresso.
Il ruolo di Washington
Tuttavia, la sequenza della caduta di Mubarak, fra giovedì 10 e venerdì 11 febbraio, può far pensare a un’intesa fra i militari e l’amministrazione americana, che potrebbe portare a un’evoluzione diversa da quella pachistana. L’amministrazione Usa ha scelto, sia pure dopo molte esitazioni, di appoggiare la richiesta di un’estromissione immediata di Mubarak accompagnata dall’inizio altrettanto immediato di una transizione politica. Al tempo stesso ha puntato al mantenimento di alcuni elementi di stabilità. Ebbene, il comunicato emesso il 10 febbraio dal Consiglio Supremo delle Forze Armate è incentrato proprio su questi due obbiettivi: delinea una transizione costituzionale per arrivare alle elezioni e conferma che i militari si assumono la responsabilità di condurla a buon fine. È solo una convergenza di intenti oppure i termini del comunicato riflettono un’intesa?
Sicuramente, l’amministrazione americana era perfettamente al corrente di quello che i militari egiziani si apprestavano a fare. Tant’è vero che il capo della Cia, Leon Panetta, giovedì ha informato il Congresso che in serata Mubarak avrebbe fatto un discorso per annunciare il proprio ritiro. Nel discorso Mubarak ha invece annunciato l’intenzione di restare, ma si trattava, si è poi saputo, di un colpo di coda personale, che i militari gli hanno fatto sconfessare nel giro di poche ore. Washington aveva quindi informazioni attendibili, il che fa ritenere che ci sia stata – e ci sia – un’intesa coi militari.
L’amministrazione americana avrebbe quindi più di un elemento su cui far leva per ottenere che ci sia una leale esecuzione del programma di transizione enunciato dal Consiglio Supremo e quindi un sostanziale cambiamento del regime politico dell’Egitto. In questo caso, invece di regredire verso l’esperienza pachistana, l’Egitto potrebbe avanzare verso un’esperienza turca e, nel tempo, evolvere verso una democrazia simile a quella che vige oggi ad Ankara.
Effetto domino
Ammesso che sia così, cioè che ci sia una benevola influenza americana sui militari egiziani, ci si deve chiedere se gli Usa saranno in grado di avviare realmente questo cambiamento e di indirizzarlo, poiché esso non sarebbe davvero senza effetti sull’assetto geopolitico dell’intera regione. Un processo di democratizzazione in Egitto aprirebbe le porte a analoghi cambiamenti in tutta la regione. Mentre il Consiglio Supremo metteva fine al regime in Egitto, in Iraq scendevano in strada gli avvocati per protestare contro la violazione e di diritti umani non di Saddam Hussein ma dell’attuale premier, Nur el Maliki. In Arabia Saudita, dieci personalità annunciavano di aver fondato un partito (qualcosa allo stato dei fatti perfettamente inesistente in quel paese), preparandosi a chiedere l’autorizzazione del re. Piccoli segnali di una tendenza già potentemente all’opera in tutta la regione.
L’effetto domino è inevitabile, tanto più che, durante la crisi egiziana, Obama ha ripreso la retorica del discorso all’Università del Cairo di due anni fa. In particolare, nella dichiarazione di venerdì scorso alla stampa ha posto l’accento, con enfasi, sulla necessità di un cambiamento in linea con le richieste dei manifestanti. Avendo sostenuto le aspirazioni del popolo di Tahrir, Obama non potrà ora deludere quelle degli altri popoli della regione. Il vento del cambiamento sembra ormai destinato a investire tutta la regione e se Obama non lo saprà gestire o si rivelerà come un inganno, c’è il rischio che si ritorca contro di lui e tutto l’Occidente, che faccia il gioco degli avversari e porti nel campo avverso forze che oggi sono alleate o comunque vicine.
Il cambiamento è strategicamente giusto, ma è anche una rivoluzione copernicana dal punto di vista della politica estera della regione. Ora si tratta di tradurla rapidamente in politiche e obiettivi concreti. Ė questa la sfida che i moti di Tarhir hanno lanciato all’Occidente e che il presidente Obama sembra avere raccolto.
Speriamo che, a differenza della Palestina, sia un’apertura cui faccia seguito un impegno effettivo e che riceva un efficace sostegno da parte europea. In questo frangente, l’Europa ha, più che mai, lasciato fare agli Usa, evitando il più possibile di esporsi, anzi in alcuni casi – come quello italiano – mostrando affezione per il regime di Mubarak. Ma, dovrà pur svegliarsi, perché se Washington perdesse la sfida, le conseguenze per gli europei sarebbero anche più pesanti che per gli americani.
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Silvia Colombo: La Tunisia in rivolta e il rischio dell’effetto domino