Libia, è il momento di ‘interferire’
Il quadro del Nord Africa e del Vicino Oriente è sotto osservazione da decenni in Europa. Già negli anni settanta era chiaro che esistevano profondi squilibri socio-economici nell’area e, allo stesso tempo, situazioni e pratiche politiche che impedivano alla regione di colmare autonomamente il divario tra la prorompente crescita demografica e il basso tasso di sviluppo.
Responsabilità occidentali
Proprio in quegli anni i paesi europei, per evitare l’impatto a medio-lungo termine degli squilibri mediterranei sulla loro compagine sociale ed economica, hanno promosso, per mezzo dell’Ue, le prime politiche euro-mediterranee, che tuttavia si sono rivelate fallimentari: non solo non sono stati rimossi gli squilibri socio-economici, ma si è indurito il carattere autoritario dei regimi politici, determinando un vero e proprio circolo vizioso.
La spiegazione neo-marxista di questa evoluzione è che gli occidentali hanno mantenuto in vita e talvolta anche rafforzato i regimi per tutelare la propria sicurezza e assicurarsi mercati di consumo e investimento. Se si prescinde dal determinismo che sempre traspira da queste interpretazioni, si possono chiamare in causa altri fattori e parlare di miopia piuttosto che di colpa. Ma, nella sostanza, il risultato non cambia.
I moti che dalla fine del 2010 si stanno sviluppando nella regione, a partire dal suicidio del fruttivendolo laureato di Sidi Bouazid, in Tunisia, hanno messo i paesi occidentali in serio imbarazzo: nessuno in Occidente può apertamente negare la legittimità delle rivolte contro i regimi, ma il crollo delle dittature mette apertamente in discussione interessi e equilibri strategici, imponendo l’esigenza di un aggiustamento, sia nel breve che nel lungo termine .
Colpo di coda
Attualmente sono in atto due transizioni democratiche non violente, anche se incerte e dagli esiti tutt’altro che scontati, in Tunisia ed Egitto. La terza crisi, quella in Libia, si è invece rapidamente trasformata in una cupa tragedia, con folle inermi bombardate e migliaia di morti. Se il regime dovesse reggere, si scatenerebbe la vendetta e il paese si trasformerebbe in un campo di sterminio. Ė quel che suggerisce il discorso di un’ora e mezza tenuto da Gheddafi nella notte fra il 21 e il 22 febbraio, che ha messo in chiara evidenza i suoi caratteri neuropatici (“mad dog” lo chiamava l’ex presidente americano Ronald Reagan).
Un esito del genere sembra però improbabile, perché il potere di Gheddafi è già terminato in Cirenaica e Fezzan. L’esercito, che evidentemente non sta sotto una coesa ed efficace catena di comando, si è in parte schierato con la rivolta. Il sostegno politico delle tribù è venuto sostanzialmente meno. Gheddafi appare costretto a Tripoli con i suoi numerosi pretoriani e mercenari, con frammenti delle forze armate qua e là rimastigli fedeli. La durata di questa resistenza è imprevedibile, ma lo scontro finale si preannuncia molto cruento .
Se Gheddafi dovesse resistere a lungo, si consumerebbe una strage simile a quella del 1989 a piazza Tienanmen, a Pechino. La Libia non è la Cina, per cui una qualche azione internazionale coercitiva (peace enforcement) simile a quella realizzata per il Kosovo è pensabile. Non è detto però che un’iniziativa del genere, anche se fosse proposta nelle sedi competenti, a partire dall’Onu, trovi il sostegno necessario. Potrebbe non essere ben vista, in particolare, dalla Cina. L’analista americano Joshua Muravchik ha suggerito l’istituzione di una zona di interdizione aerea (no-fly zone), come quella realizzata in Iraq dopo la guerra del Kuwait per impedire che Saddam Hussein bombardasse i suoi concittadini sciiti e curdi.
Missione umanitaria
Arrivati a questo punto c’è il rischio concreto che la Libia si trasformi in uno stato “fallito”. Mentre è difficile gestire il conflitto in atto, non è detto che un eventuale intervento internazionale riesca a far sorgere una nuova autorità in grado di ripristinare lo stato, né che lo stato libico resti unito. Potrebbe anche emergere una nuova dittatura o potrebbero costituirsi emirati islamici di varia natura (uno è stato già annunciato, ma non se ne sa nulla).
Se l’eventualità che sorgano questi emirati appare remota, una divisione fra Est e Ovest del paese esiste, non si è mai completamente cicatrizzata, ed una spaccatura definitiva non si può escludere. Inoltre, mancano in Libia i cuscinetti civili e militari che hanno permesso l’avvio di transizioni pacifiche in Egitto e Tunisia. Ciò rischia di provocare gravi conseguenze in termini di emigrazioni, estremismo politico, più ampi effetti di tracimazione e danni all’economia internazionale. L’aumento del prezzo del petrolio riflette i rischi che corre un’economia internazionale ancora non uscita dal caos della recente crisi finanziaria.
Perciò, i paesi occidentali e la comunità internazionali non possono restare a guardare. C’è un fronte umanitario che diverrà sempre più caldo nei prossimi giorni e che si connette ad un problema più ampio di stabilità internazionale, solo poco meno immediato. Si deve dunque intervenire nell’immediato non solo per ragioni strettamente umanitarie, ma anche perché, senza aver rapidamente sgombrato il campo dal regime, non si può aprire la strada a una transizione accettabile, in grado a sua volta di produrre un cambiamento strutturale, in cui interessi e valori siano meglio conciliabili.
Imbarazzi ed esitazioni
La Libia che si sta liberando percepisce una complicità fra Gheddafi e i paesi occidentali. Se l’Occidente non si sbriga a smentire questa percezione, si aprirà un altro capitolo del contenzioso generale fra Occidente e musulmani e un altro varco all’estremismo salafita. La gente chiede ai giornalisti, che cominciano ad entrare in Cirenaica dall’Egitto, perché mai l’Italia appoggi Gheddafi. Il miglior modo di convincerli è di aiutarli subito con efficaci dichiarazioni e azioni internazionali. Un’“interferenza” contro il regime avrebbe un effetto positivo.
Le parole pronunciate dal presidente americano Obama il 22 febbraio hanno almeno riaffermato con forza che gli Stati Uniti stanno dalla parte dei cittadini inermi. L’Europa è stata frenata dalle esitazioni italiane. Le sanzioni di cui si parla a Bruxelles immaginano una crisi che si protrae e che, invece di essere decapitata, viene lentamente soffocata. Sarebbe solo una ripetizione dell’Iraq: si lascia il regime ad agonizzare e la popolazione a pagarne le spese.
In Libia, un’elite di funzionari civili capaci e filo-occidentali esiste: è quella che in queste ore sta prendendo le distanze dalla carneficina scatenata da “cane matto”. Occorre accelerare la fine del regime e rimettere nelle loro mani il paese, evitando di ricreare un’ennesima ondata di illustri libici in esilio. Europei e americani possono avere un ruolo determinante nell’accelerare la fine al regime e aprire una transizione verso una nuova Libia amica dell’Occidente.
Per l’Italia, che con la classe dirigente libica ha rapporti seri – più antichi e diversi da quelli instaurati dal presidente Berlusconi – un cambiamento di approccio è particolarmente impellente. La posta in gioco per il nostro paese è molto alta e l’imprudente politica del governo rischia di scaricare su di esso i risentimenti della Libia che uscirà dalla crisi attuale. Mettendo, quindi, gravemente a rischio gli interessi nazionali.
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