Le navi iraniane a Suez e l’allarme di Israele
Dopo giorni di annunci e smentite, due navi da guerra iraniane sono entrate nel Canale di Suez e si dirigono verso il Mediterraneo per una missione di addestramento di alcuni giorni in Siria. È la prima volta in trent’anni che le navi militari iraniane attraversano il canale che collega il mar Rosso al Mediterraneo. Costretto ad interrompere la sua monotona routine, il Canale di Suez, che tra non molto compirà 150 anni, ha dovuto più volte, negli ultimi tempi, confrontarsi con nuovi scenari.
Durante la crisi che ha portato alla caduta di Mubarak è stato evocato lo spettro della sua chiusura (per motivi di sicurezza ? per rimarcare il cambio di regime politico?), come era già accaduto all’inizio della guerra dei sei giorni del 1967. Un allarme che ha influito sul prezzo del greggio e che è rientrato quando la giunta militare ha deciso l’invio di unità speciali a guardia delle sue rive e a protezione del gasdotto con Israele.
Successivamente è sorto il caso del transito di due navi da guerra dell’Iran dirette in Siria che ha messo in allarme Israele. Al di là delle apparenze, è bene analizzare gli aspetti storico-giuridici correlati per avere un chiaro punto di situazione: gli interessi vitali che gravitano attorno al Canale coinvolgono, oltre all’Egitto, vari attori della comunità internazionale, a cominciare da Israele e Stati Uniti e, non ultima, l’Italia.
Regime internazionale di transito
“Il Canale marittimo di Suez sarà sempre libero ed aperto, in tempo di guerra come in tempo di pace, ad ogni nave mercantile o da guerra, senza distinzione di bandiera”. Così recita l’art. I della Convenzione di Costantinopoli del 29 ottobre 1888 relativa alla libera navigazione del Canale di Suez che ancor oggi ne disciplina il regime di transito. Secondo questo accordo (di cui è parte anche l’Italia) il Canale è soggetto ad un regime di demilitarizzazione: nessun atto di ostilità può essere compiuto al suo interno, ma esso può essere usato da nazioni belligeranti, in tempo di guerra, per eseguire azioni in aree esterne.
Tale regime fu strettamente osservato nel corso delle due guerre mondiali ed anche nel 1936 durante la campagna dell’Italia contro l’Etiopia. Al termine della crisi del 1956 indotta dalla nazionalizzazione della Compagnia del Canale, l’Egitto, s’impegnò con la Dichiarazione del 24 luglio 1957 a “mantenere libero il Canale e non interrompere la navigazione a favore di tutte le Nazioni entro i limiti e in accordo con le previsioni della Convenzione di Costantinopoli del 1888”. L’impegno dell’Egitto a rispettare tale regime non impedì tuttavia di applicare il divieto di transito nei confronti di navi israeliane.
Il divieto fu successivamente esteso a qualsiasi carico diretto in Israele, a prescindere dalla bandiera della nave utilizzata per il trasporto con motivazioni di vario genere riconducibili, in sostanza, alla tesi che il governo egiziano avesse il diritto, in ragione delle ostilità in atto, di adottare misure difensive. La situazione di ostilità tra i due paesi sfociò nel conflitto del giugno 1967, durante il quale Israele occupò la Penisola del Sinai sino alle rive del Canale, mentre l’Egitto bloccò il transito della via d’acqua mediante l’affondamento di quindici navi. Il Canale fu chiuso sino al 1975.
Diritti di Israele
La penalizzazione subita da Israele per effetto della chiusura del Canale fu enorme. La libertà di transito è infatti vitale per Israele sia per i traffici commerciali sia per le comunicazioni via mare con Eilat nel Golfo di Aqaba. Per questo motivo lo storico Trattato di pace del 1979 seguito agli accordi di Camp David del 1978 tra Sadat, Begin e Carter prevede che le “Navi di Israele … godranno del diritto di libertà di transito attraverso il Canale di Suez e delle sue rotte di avvicinamento lungo il Golfo di Suez ed il Mediterraneo sulla base della Convenzione del 1888…”. Lo stesso trattato riconosce inoltre che lo Stretto di Tiran ed il Golfo di Aqaba sono vie d’acqua internazionali aperte alla libertà di navigazione di tutte le Nazioni.
In aggiunta a questo riconoscimento internazionale dei diritti di Israele un ulteriore garanzia è costituita dal Memorandum bilaterale del 1979 con cui gli Stati Uniti, sulla base del Trattato di Pace dello stesso anno, si impegnano ad adottare le misure necessarie a proteggere gli interessi di Israele relativi alla libertà di passaggio nel Canale e alla navigazione nello Stretto di Tiran e nel Golfo di Aqaba. Tali previsioni sono volte in sostanza ad impedire il blocco marittimo di Israele.
Cosa vuole l’Iran
In teoria nulla impedisce all’Iran di far transitare proprie navi. A fronte dei diritti di Israele garantiti dagli accordi appena ricordati vi è il generico diritto di cui gode l’Iran, al pari di qualsiasi altra nazione, di avvalersi del regime stabilito dalla Convenzione del 1886. Correttamente l’ Autorià del Canale ha gestito il caso in modo asettico adottando un basso profilo.
Le unità iraniane (una vecchia Fregata di costruzione britannica ed una grossa nave appoggio, entrambe dotate di armamento tradizionale) hanno atteso a Gedda qualche giorno durante il quale sono circolate voci contraddittorie sulla missione di trasferimento in Siria per addestramento ad attività antipirateria. Poi sono entrate nel Canale di Suez dirigendosi verso il Mediterraneo per una visita “di routine” di alcuni giorni in Siria
Apparentemente niente di straordinario dunque, anche se pare che l’Egitto negli ultimi trent’anni avesse sempre fatto in modo che l’Iran non avanzasse richieste di transito. Da questo punto di vista è chiaro che l’Iran ha abilmente sfruttato la caduta di Mubarak per mettere piede in Mediterraneo. Peraltro l’Egitto dopo il 1975 ha sempre autorizzato il transito di unità israeliane, compresi i sommergibili classe “Dolphin” dotati di missili balistici diretti nel Golfo Persico.
Interessi commerciali
Altro problema è che la presenza iraniana in Mediterraneo è oggettivamente una sfida ravvicinata alla sicurezza di Israele. Ma questo non riguarda il Canale, quanto piuttosto l’assetto geopolitico dello stesso Mediterraneo che, è bene ricordarlo, non è né un mare chiuso come il Mar Nero né una zona smilitarizzata. Al limite va notato come l’attività iraniana nel Mediterraneo dovrebbe essere bilanciata da analoga attività militare nel Mar Rosso dei paesi occidentali oltre che di Israele e Stati Uniti, i quali sono impegnati in particolare nell’interdizione del contrabbando di armi via Mar Rosso diretto verso Gaza. Al riguardo è significativo che John Bolton, ex ambasciatore Usa all’Onu abbia accusato l’Iran di cercare stabilire, attraverso il Canale di Suez, una rotta per il rifornimento di armi alle milizie libanesi di Hezbollah.
L’allarme sulle gravi conseguenze negative per l’economia marittima a seguito della eventuale chiusura del Canale è stato lanciato a fine gennaio, quando la situazione politica in Egitto stava precipitando. Poi il pericolo è sembrato rientrare con l’assunzione del controllo del Canale da parte dei militari. Gli scenari di crisi ipotizzati sono drammatici, ma non catastrofici. Di certo verrebbero penalizzati quei paesi, come ad esempio l’Italia, la cui economia dipende completamente dal trasporto marittimo. Il Mediterraneo, infatti, sarebbe marginalizzato. Questo però è già avvenuto tra il 1967 e il 1975, durante i lunghi anni della chiusura del Canale nel corso dei quali sono state adottate strategie alternative sviluppando il trasporto del petrolio con superpetroliere lungo la rotta del Capo di Buona Speranza.
Per effetto della pirateria somala, peraltro, il traffico del Canale negli ultimi anni è già diminuito di circa il 20% causando all’Egitto ingenti danni economici per la riduzione delle tasse di transito (valutate su base annua in circa 5 miliardi di dollari) ma invogliando gli armatori a seguire la rotta del Capo. Se così è, la chiusura del Canale produrrebbe i danni maggiori per lo stesso Egitto e quindi sarebbe un atto autolesionistico. A meno che non accada qualche fatto imprevisto a sfondo nazionalistico. O siano compiuti atti terroristici come il minamento del 1984 del Golfo di Suez (al tempo si disse ispirato dalla Libia) per la cui bonifica fu impiegata una flotta multinazionale di cui facevano anche parte cacciamine della nostra Marina.
Mantenere lo status quo
Ancor oggi desta ammirazione la “concezione di solidarietà dei popoli che animò i reggitori dell’Egitto nel deliberare l’impresa del canale e nell’imprimergli il carattere di via universale di comunicazione libera a tutti”. Dopo la caduta di Mubarak, l’Egitto è chiamato a dare prova di credere in questa idea universale e di voler continuare a rispettare i trattati che garantiscono i vitali diritti di Israele. Qualsiasi cambiamento della situazione del Canale, oltre che dannoso per l’economia dell’Egitto e dell’intero Mediterraneo, sarebbe estremamente rischioso.
Questo vale per il Canale e le sue vie di acceso ma anche per lo Stretto di Tiran e per il Golfo di Aqaba, in cui il contingente navale italiano costituito da tre pattugliatori della Marina Militare opera dal 1982, nell’ambito della “Multinational Force and Observers” (la Mfo, la cui sede è a Roma) per assicurare la libertà di navigazione tra le sponde di Egitto, Israele, Giordania ed Arabia Saudita. L’Italia gioca da tempo un ruolo molto apprezzato nel mantenimento della stabilità dell’area secondo gli accordi di Camp David: ora ha ancor più il dovere di continuare a farlo nell’interesse proprio e della comunità internazionale.
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