Israele di fronte alla scossa egiziana
Il dramma che si sta svolgendo al Cairo può portare a un cambiamento epocale in Medio Oriente ed è comprensibile che gli israeliani ne siano fortemente preoccupati. Tra i possibili scenari c’è infatti anche quello di un più o meno rapido tramonto della pace basata sul trattato tra Egitto e Israele del 1979. Ma, anche escludendo sviluppi estremi, il quadro generale della regione non sarà più quello che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni: una serie di regimi privi di sostegno popolare, coalizzati con gli occidentali e pronti a servirne gli interessi in cambio di un appoggio politico ed economico.
Il mondo degli arabi “moderati” ha ricevuto una scossa irreversibile e quello che si profila è un nuovo ordine regionale che i paesi occidentali possono contribuire a definire solo in misura limitata. Ma mentre per americani ed europei si pone il problema di rivedere radicalmente la loro strategia nel Mediterraneo e in Medioriente, se vogliono evitare di perdere ruolo e influenza nella regione, il rischio per Israele è ben più grave e può assumere un carattere esistenziale.
Evitare il collasso
Se l’Egitto non riuscirà a trovare un equilibrio sufficientemente stabile, la sua ingovernabilità potrà espandersi all’intera regione, finendo per influenzare anche la transizione della Tunisia, che pure parrebbe avviata verso un nuovo assetto più aperto e democratico.
Per evitare che l’Egitto precipiti nell’ingovernabilità è necessario che le parti meno compromesse dello stato sopravvivano. Gli Usa, che hanno scelto di sostenere il cambiamento, hanno attivato i loro canali diplomatici, affinché emerga una leadership “pulita”, come quella di Mohamed El Baradei, ma temono una rottura troppo netta con il passato. La loro mediazione è dunque volta a far entrare nel governo qualche militare o comunque personalità che possano garantire le forze armate.
In Iraq, dopo il crollo del regime nel 2003, l’amministrazione americana fece il contrario. Mettendo radicalmente al bando tutte le forze militari baathiste, determinò una rottura che il paese non fu in grado di assorbire e che continua a ostacolare ancora oggi il ritorno alla normalità.
Opposizione radicale
Ma non è detto che la situazione consenta compromessi, né che gli Usa riescano davvero a influenzarla.
El Baradei rappresenta un nazionalismo liberale sostanzialmente moderato, non nuovo all’Egitto, che potrebbe riscuotere un vasto consenso. L’alternativa è una coalizione tra i nazionalisti, più panarabi e intransigenti, e i Fratelli Mussulmani.
Una volta al governo, El Baradei adotterebbe una politica nei confronti di Israele molto diversa da quella seguita da Hosni Mubarak, ma difficilmente romperebbe il Trattato di pace. Questa scelta determinerebbe tuttavia la dura opposizione dei nazionalisti panarabi e islamisti, che potrebbe anche riuscire a travolgere il nuovo governo in tempi brevi.
Il programma del nuovo governo, inoltre, non potrebbe andare molto oltre la preparazione delle elezioni, quelle presidenziali ma anche, necessariamente, quelle legislative. Un compromesso tra le principali forze politiche per il sostegno a questo governo “istituzionale”, potrebbe però non bastare ad evitare che dalle urne escano vincitrici le forze più radicali, con una replica della vittoria di Hamas in Palestina nel gennaio 2006.
C’è il rischio dunque che il Trattato di pace sia rimesso in discussione, di fatto e/o di diritto, o che, pur rimanendo in vigore il Trattato, si verifichi un inasprimento dei rapporti con Israele, che produrrebbe sommovimenti destabilizzanti in tutta la regione.
Lo spettro degli islamisti
In Israele la convinzione che Tunisia ed Egitto cadranno presto o tardi nelle mani degli islamisti è predominante. Diffuso, come nella destra americana, è il paragone con la cacciata dello scià dall’Iran nel 1979, appoggiata, più o meno direttamente, anche dall’amministrazione americana guidata da Jimmy Carter, che lasciò mano libera all’incerto movimento democratico espresso dalla rivoluzione, sul quale ben presto ebbero il sopravvento i radicali guidati dall’Ayatollah Khomeini.
Dore Gold, già consigliere politico del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e illustre esponente della destra, in un recente studio ha riproposto la tesi secondo cui la Fratellanza Musulmana, il principale movimento islamico in Egitto, resta un’associazione fondamentalmente violenta e integralista. In controtendenza con larga parte della letteratura accademica degli ultimi anni, che invece tende sempre più a sottolineare l’indebolimento della Fratellanza Musulmana e la sua parziale moderazione dal punto di vista politico.
Secondo Gold non c’è dubbio che la Fratellanza, sebbene estranea all’erompere dei moti, non avrà difficoltà a egemonizzare il movimento. Com’è noto, la Fratellanza ha espresso il suo appoggio a El Baradei, ma Gold sottolinea che questi è destinato ad essere una marionetta nelle loro mani (“Nelle strade del Cairo, i manifestanti affiliati alla Fratellanza Musulmana definiscono El Baradei “somaro della rivoluzione”, da usare e poi gettare”).
Sull’alto rischio che il potere in Egitto finisca nelle mani degli islamisti, coalizzati o meno con un’ala, necessariamente subordinata, dei nazionalisti, c’è consenso anche nelle aree di centro e di sinistra dello spettro politico israeliano. Non solo la destra, dunque, ma anche la maggioranza degli israeliani, decisamente in sintonia con il loro governo, vede gli avvenimenti di oggi come un’angosciosa ripetizione di quelli dell’Iran del 1979, inclusa la decisione di puntare su El Baradei, un “somaro” della rivoluzione.
Effetto domino
Fra gli israeliani c’è anche accordo sul fatto che la caduta del regime di Mubarak avrebbe un effetto domino: dall’influenza dei Fratelli Musulmani sul nuovo governo egiziano si passerebbe al loro appoggio ai confratelli di Hamas, alla reviviscenza della resistenza islamica in Cisgiordania e, infine, al rafforzamento dell’opposizione guidata dai Fratelli in Giordania.
Quale impatto si avrebbe, in questo scenario di crescente radicalizzazione, sui rapporti fra sunniti e sciiti, arabi e iraniani? Il tema è stato affrontato poco o nulla in Israele, come nel resto dell’Occidente.
D’altra parte, se in Occidente si registra una convergenza di massima sui possibili scenari, non c’è invece accordo sulle scelte da compiere. Il governo israeliano capeggiato da Benjamin Netanyahu, i cui membri hanno ricevuto la consegna di evitare ogni commento, ha rivolto un appello ai governi occidentali affinché facciano tutto il possibile per preservare lo “status quo”. L’appello rivela che il governo non vede, o immagina, alternative alla sua politica.
Un recente editoriale del direttore dello Institute for National Security Studies di Tel Aviv, Oded Eran (ex ambasciatore di Israele presso l’Ue), sottolineava la divisione sempre più netta, nella regione, fra le forze moderate e quelle radicali. Israele, sottolinea Eran, non può limitarsi a guardare con soddisfazione a tale divisione, ma dovrebbe fare qualche cosa per rafforzare il campo dei moderati. L’allusione è ai rapporti irrisolti di Israele con i vicini.
È quanto sostiene anche Yossi Alpher, ex consigliere politico di Ehud Barak quando questi fu premier. Secondo Alpher i falchi del governo Netanyahu continueranno a credere che Israele non ha interesse a fare concessioni in una situazione che sta cambiando. Ma le concessioni, sottolinea Alpher, potrebbero rivelarsi inutili, se non addirittura controproducenti, se fatte troppo tardi. Al contrario, lui, come altri israeliani, ritengono che “proprio l’assenza di un processo di pace potrebbe incoraggiare i futuri governanti dell’Egitto e forse della Giordania a voltare le spalle ad Israele”.
Orizzonte regionale
Un editoriale di “Haaretz”, infine, esorta il paese a ripensare un nuovo ordine regionale in termini di cooperazione e integrazione, riproponendo il dilemma di sicurezza fondamentale del paese: se sia veramente possibile una pace stabile e duratura con gli arabi. Lo stesso Ben Gurion, primo capo di governo israeliano, era convinto che gli arabi non avessero motivo per accettare Israele.
Questo approccio ha fortemente influenzato la strategia di sicurezza nazionale di Israele, che non ha mai puntato all’effettiva ricerca della pace, considerandola – fin dal momento della fondazione dello Stato – sostanzialmente impraticabile. Può questa ricerca cominciare ora, in condizioni così drammatiche?
Mentre gli europei si sono più che mai messi fuori gioco da soli, gli Stati Uniti dovrebbero riflettere di più sul nesso tra la crisi e il processo di pace, nel momento stesso in cui cercano di influenzare gli eventi. La mediazione in corso dovrebbe non solo fondarsi sulla simpatia per le domande del popolo di piazza Tahrir, al Cairo, ma anche su un nuovo, più credibile progetto riguardante la Palestina e la Siria.
.