Medioriente in bilico
Nel 2010 si sono visti in Medio Oriente lenti e faticosi processi, che non hanno messo capo a nessuna soluzione dei conflitti in atto, o hanno prodotto solo situazioni instabili o incerte. I casi più macroscopici sono l’Iran e la Palestina. L’Iran è stato sottoposto a nuove e più severe sanzioni internazionali, ma nessuna soluzione politica della crisi che contrappone l’Iran agli occidentali e agli arabi moderati è in vista. Il negoziato fra Israele e i palestinesi, avviato dall’amministrazione Obama, non ha compiuto passi avanti e anche la mediazione dell’Egitto tra i due gruppi palestinesi rivali, Fatah e Hamas, si è conclusa con un nulla di fatto. Tuttavia, il cambio di approccio avviato dagli Usa potrebbe aprire qualche spiraglio per il 2011. È necessario però che anche i principali alleati degli Usa promuovano politiche attive, senza limitarsi a contemplare l’apparente protagonismo americano.
Fronti aperti
Non meno deludente e problematica si è rivelata l’evoluzione in Iraq. Le elezioni parlamentari si sono tenute a marzo, ma solo in dicembre si è arrivati alla formazione del governo, dopo un lungo e tormentato processo negoziale durante il quale si è andati più volte vicini alla rottura definitiva. Ciò solleva non pochi dubbi sia sull’effettiva operatività del governo, sia sul suo carattere democratico, sia infine sulla sua capacità di stabilire relazioni stabili e cooperative con i vicini.
Il quadro rimane incerto e precario anche in Libano. L’attesa della pronuncia del tribunale dell’Onu sull’assassinio del presidente Rafiq Hariri ha continuato a tenere il paese sulla corda, accentuando il riflusso della coalizione pro-occidentale detta del “14 marzo” e permettendo il rafforzamento politico e militare del Partito di Dio (Hezbollah). Anziché dare un colpo a quest’ultimo, la sentenza del tribunale minaccia di causare una nuova guerra civile che metterebbe una pietra tombale sulla democratizzazione del paese. L’anno si è chiuso con una pressione diplomatica congiunta di Siria e Arabia Saudita sul governo libanese affinché questi disconosca in anticipo ogni verdetto di condanna contro i dirigenti del Partito di Dio per l’assassinio di Hariri. Un altro segno che la diplomazia di Riyad ha i piedi di argilla e che Damasco è riuscita a rientrare pienamente in gioco.
In Pakistan e Afghanistan i notevoli sforzi strategici, politici e militari degli Stati Uniti e degli alleati per incanalare la guerra verso una soluzione a medio termine continuano a girare a vuoto. Il Pakistan non ha rinunciato a fare il doppio gioco. D’altronde, se per gli occidentali l’Afghanistan è fonte di rischi per la stabilità globale, per Islamabad è un aspetto dell’ostilità senza fine con Nuova Delhi. Il conflitto afgano-pakistano ha forti legami con il Medio Oriente e il mondo islamico, ma geopoliticamente è parte dell’inveterata ostilità indo-pachistana. Dovrebbe essere esaminato più in questo quadro che in quello del Grande Medio Oriente.
Nello Yemen il governo è minacciato da insurrezioni al nord e al sud del paese, che si muovono lungo una spaccatura che nel corso della storia di questo paese ha assunto molte forme e ora anche quella di Al-Qaida. Nella regione dell’Asir c’è un conflitto con l’Arabia Saudita che si perde nel tempo. Ma, mentre Riyadh ha mezzi e risorse per combattere sia le tribù yemenite del nord sia il suo ramo di Al Qaida, Sanaa non ha nulla. Il conflitto potrebbe estendersi oltre il Mar Rosso e il Mar d’Arabia, coinvolgendo altri attori. Neppure questa sarebbe una novità nella storia dell’area.
Da ultimo, va ricordato che è andato avanti il processo che condurrà, dopo il referendum che si svolgerà il 9 gennaio, alla separazione del Sudan meridionale dal resto del paese, senza che né i sudanesi né la diplomazia internazionale siano riusciti a preparare le condizioni per una scissione pacifica. È alto quindi il rischio che si rinnovino le ostilità. La diplomazia araba si è occupata molto del Sudan, ma in prevalenza con l’intento, più o meno velato, di metterlo al riparo dalle interferenze e dalle supposte soperchierie dell’Occidente e del tribunale internazionale sul Darfur. La Turchia si è unita agli arabi e il premier Erdoğan ha addirittura dichiarato che, essendo musulmani, i sudanesi di Khartoum non potevano aver commesso nessun genocidio nel Darfur (forse pensava ai turchi e agli armeni). Si continua a parlare molto del Darfur, molto meno del Sudan meridionale.
La chiusura d’anno indica i problemi del prossimo. Da un lato, le grandi questioni sul tappeto, la Palestina, il Libano, l’Iraq, l’Iran, la regione del Golfo e l’AfPak, non solo non accennano a risolversi, ma potrebbero acuirsi. Dall’altro, il Sudan, lo Yemen e l’area del Mar Rosso potrebbero debordare e magnificare i conflitti e le crisi in essere.
L’incognita Iraq
Nel 2011 gli Usa se ne andranno dall’Iraq. Per tutto il 2010 hanno sperato di poterlo lasciare nelle mani di un governo capace di dare una soluzione equilibrata ai gravi problemi del paese. In verità, si è anche temuto che questo governo non riuscisse a vedere mai la luce. Dal punto di vista interno, il nuovo governo al-Maliki difficilmente si può considerare come un netto superamento dell’autoritarismo baathista. Dal punto di vista regionale, pur essendo ovviamente amico dell’Iran, non pare intenzionato a diventare una pedina di Teheran. Tuttavia, o questo governo s’impegna a trovare un equilibrio interno sostenibile o continuerà a suscitare e subire le interferenze di tutti i suoi vicini, con il rischio di finire per essere manovrato da questo o da quello. Ciò potrebbe scatenare nuovi conflitti e comunque impedire la risoluzione di quelli in essere.
A causa dell’Iraq, delle ambizioni dell’Iran e dello scontro fra radicali e moderati, la regione del Golfo rimane fortemente instabile. Il ritiro degli Usa dall’Iraq è inevitabile e, in larga misura, opportuno, per non esacerbare lo scontro regionale in atto e poterlo affrontare, invece, in modo più efficace. Ma come? Il primo Obama aveva lanciato una strategia su tre fronti: rilancio dell’amicizia e del dialogo con il mondo musulmano; mano tesa all’Iran; e soluzione del problema palestinese. Nessuna di queste politiche ha avuto successo. C’è una possibilità di rilanciarle?
Gli Usa verso un cambio di strategia
Alla fine dell’anno, in un discorso alla Brookings Institution, il Segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha annunciato un cambiamento di strategia per risolvere la questione palestinese. In effetti, un successo su questo fronte, rassicurerebbe i musulmani sull’atteggiamento dell’Occidente, rafforzerebbe i moderati arabi e metterebbe in imbarazzo i radicali. Ed è certamente un buon segno che l’amministrazione continui a perseguire l’obiettivo di una pace fondata sul principio dei due stati, malgrado gli insuccessi anche umilianti degli ultimi due anni.
Il discorso della Clinton alla Brookings è stato sottovalutato. Non ha semplicemente detto che si ricomincia dal negoziato sul territorio, lasciando da parte la questione (politicamente e ideologicamente più spinosa) degli insediamenti coloniali. Ha anche spiegato con chiarezza la metodologia dei negoziati che verranno e i criteri su cui poggeranno le “bridging proposals” Usa per arrivare a una soluzione finale. Nell’insieme, il discorso ha dato il senso di una nuova e più razionale determinazione.
La soluzione del problema israelo-palestinese non è la panacea o l’unica chiave della pace nella regione. Una soluzione della questione palestinese sarebbe certamente positiva per rafforzare il dialogo con i musulmani, ma non è affatto detto che convincerebbe i radicali ad abbracciare la logica negoziale. I radicali o alcune delle loro ramificazioni potrebbero anzi reagire, scatenando un’inaudita violenza asimmetrica, come è già accaduto più volte.
Tuttavia, se la pace israelo-palestinese contribuisse a ravvicinare l’Occidente e l’Islam, i radicali si troverebbero più isolati che in passato. Perciò, di fronte a un anno che si presenta comunque irto di conflitti, sia in atto sia potenziali, l’apparente determinazione dell’amministrazione Usa ad insistere nel suo tentativo di risolvere il conflitto israelo-palestinese è un buon segno. È auspicabile che gli americani vadano avanti, che si concertino di più con gli alleati e, soprattutto che questi ultimi conducano politiche attive, senza limitarsi ad aspettare che gli Stati Uniti facciano tutto da soli.
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Vedi anche:
A. Marzano: Assedio diplomatico a Israele
M. Calculli: Il Libano alla prova del tribunale Onu
A. Marzano: Il negoziato israelo-palestinese riparte in salita