IAI
Adesione all’Ue

L’imbroglio turco

28 Gen 2011 - Riccardo Perissich - Riccardo Perissich

È davvero difficile trovare molte persone, a Bruxelles o nelle capitali europee, disposte a sostenere in buona fede che l’adesione della Turchia sia possibile o probabile in un avvenire prevedibile. La stampa anglosassone tende ad addossarne la responsabilità a Nicolas Sarkozy, a Angela Merkel, o alla Grecia. La verità è molto più complessa. L’opposizione è radicata con più o meno vigore nelle opinioni pubbliche di tutti i paesi membri e c’è la certezze quasi matematica che il trattato di adesione verrebbe rifiutato nei paesi in cui fosse sottoposto a un voto referendario (il governo francese si è già impegnato in questo senso).

Cambiamento profondo
Le ragioni sono molteplici, alcune serie altre meno. Fra quelle sbagliate c’è la religione. Maggiore peso hanno invece la diffidenza creata dall’esito mediocre di alcuni recenti allargamenti (si pensi a Romania, Bulgaria e Cipro) e il timore che un paese dalle dimensioni della Turchia possa destabilizzare e rendere ancora più ingovernabili le strutture ancora fragili dell’Unione. Ma c’è anche un problema più profondo. La Turchia cui la Ue promise l’adesione mezzo secolo fa e con cui ha convissuto durante la guerra fredda, non esiste più.

Del resto, anche la nostra visione di una Turchia laica, kemalista avviata alla modernizzazione e a una compiuta democrazia era basata in parte su un’insanabile contraddizione. La classe dirigente kemalista ha raggiunto innegabili risultati, ma la grande maggioranza della popolazione ha continuato a sentirsi profondamente musulmana; la sua egemonia è rimasta intrinsecamente fragile e, nei momenti decisivi, è dipesa da periodici interventi dei militari. Questo stato di cose non poteva sopravvivere alla fine della guerra fredda. Un partito islamico moderato è andato al potere e governa ormai da più di un decennio. Il paese non tornerà mai più quello di prima.

Il declino del potere dei militari è ormai irreversibile. La nuova classe dirigente islamica, che non è solo politica ma anche economica, non è destinata a scomparire. D’altro canto, il lungo predominio della laicità kemalista ha creato nella società turca degli anticorpi fortissimi; essi si esprimono in una borghesia urbana che non ha nulla in comune con i piccoli gruppi dominanti filo-occidentali che rischiano di essere spazzati dall’onda dell’islamismo in altri paesi musulmani. L’equilibrio è fragile e la transizione rischia di essere ancora turbolenta. Tuttavia, sta faticosamente emergendo un paese nuovo e complesso che non è né completamente europeo né completamente asiatico.

“Zero nemici”
Il mutamento che più ha colpito l’occidente riguarda la politica estera. Liberata dai vincoli della guerra fredda, la Turchia ha sviluppato iniziative autonome nei confronti dell’Asia centrale, della Russia e del mondo arabo. Hanno suscitato particolare emozione soprattutto l’atteggiamento conciliante nei confronti dell’Iran e la crisi della storica alleanza con Israele. Particolare risonanza ha poi assunto la retorica del ritorno a una “visione ottomana” delle relazioni esterne del paese. Quest’ultima dovrebbe però essere presa per quello che è: il tentativo un po’ ingenuo, ma sostanzialmente privo di prospettive con cui un paese emergente cerca nella propria storia le ragioni del suo interesse nazionale. Un po’ come l’Italia risorgimentale e poi fascista si illuse di rispolverare i fasti della romanità.

Più seria è invece la dichiarata volontà del governo turco di perseguire una politica di “zero nemici”: obiettivo assolutamente logico per un paese che si trova in quelle condizioni geopolitiche. L’errore più grave che l’occidente può fare è però credere che ciò significhi “perdere la Turchia”. La forza della Turchia in una zona del mondo caratterizzata da stagnazione economica e turbolenze politiche, religiose e sociali, dipende largamente dal suo statuto di paese emergente, capace di un vigoroso sviluppo economico e sociale all’interno di istituzioni democratiche condivise. Se vogliono perseguire questa politica, i turchi hanno assoluto bisogno di un rapporto stretto con l’occidente e in particolare con l’Europa.

Rompere il blocco
Credere che la prospettiva di adesione all’Unione sia una precondizione di questo rapporto è, da parte degli europei, una manifestazione di assurda presunzione; essi confermano così che l’allargamento è l’unica politica estera comune di cui l’Europa sembra essere capace. Quando proclamano che l’adesione turca permetterebbe all’Europa di disporre di “un ponte verso il mondo musulmano”, i partigiani dell’adesione non si rendono conto di cacciarsi in una contraddizione. Da un lato vogliamo che l’Unione sviluppi una politica estera più coesa e unitaria, dall’altro rifiutiamo di vedere che l’integrazione di una Turchia alla ricerca di un suo autonomo interesse nazionale renderebbe un tale sviluppo impossibile.

Siamo quindi in una situazione di stallo altamente pericolosa, che si accentuerà nel corso del 2011. Stallo che la macchina istituzionale e politica europea si rifiuta di ammettere. Si avvicina però il momento in cui a Bruxelles saranno esauriti i capitoli su cui la Commissione è stata autorizzata a negoziare con la Turchia, che da parte sua è poco disposta ad accettare compromessi. Se non ci sarà un gesto generoso da parte della Francia, della Grecia o di Cipro presto dovremo constatare che il negoziato si è interrotto.

Come superare lo stallo? I turchi non hanno interesse a muoversi. I paesi apertamente reticenti, Francia e Germania in testa, hanno dimostrato di non saper parlare alla Turchia in modo positivo. La credibilità degli Stati Uniti agli occhi dei turchi non ha cessato di ridursi, a partire dalla guerra all’Iraq. Per non parlare di Israele, che ha lasciato evaporare l’alleanza con l’unico stato musulmano della regione. Spetterebbe agli “amici” della Turchia rompere il circolo vizioso. I principali sono l’Italia e la Gran Bretagna. La seconda non è credibile poiché appare evidente a tutti che il suo sostegno non è altro che un elemento della tradizionale politica che consiste nell’usare gli allargamenti per diluire la spinta all’integrazione; ad Ankara anche i più ottimisti sanno che gli inglesi si batteranno “fino all’ultimo turco”. L’Italia, i cui interessi politici ed economici nel paese sono enormi, avrebbe invece la credibilità per parlare ad Ankara con il linguaggio del realismo e dell’amicizia. Se volesse farlo, renderebbe un grande servizio sia alla Turchia sia all’Europa.

Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume su , Longanesi editore.