Le rivolte in Egitto e Tunisia e gli incubi dell’Occidente
Benché alimentati da un grave disagio economico e sociale, i moti in Tunisia ed Egitto non sono stati per nulla simili alle passate “rivolte del pane”. Si sono presto trasformati in rivolte politiche contro regimi oppressivi e corrotti ma, prima di tutto, contro l’estrema arroganza dei leader al potere, e contro l’accaparramento e lo sperpero di risorse nazionali da parte dei loro clan familiari. Una situazione simile a quella di Tunisia ed Egitto si riscontra, per motivi diversi, in Libia e Algeria, dove l’arroganza e l’accentramento del potere non sono meno opprimenti. Diverso il caso di Giordania, Marocco e Arabia Saudita, dove i regimi al potere godono di maggiore legittimità e possono contare su una base di consenso.
Perciò, anche se la rivolta in Tunisia ed Egitto avrà un impatto considerevole a livello regionale, non è detto che si trasmetta, almeno nell’immediato, anche ad altri paesi.
Molto dipende da quello che accadrà in Egitto. Mentre in Tunisia sembra avviata una transizione verso un diverso assetto politico, anche se dai contorni incerti, in Egitto non è chiaro se i provvedimenti presi dal regime porteranno a un effettivo cambiamento.
Transizione tunisina
In Tunisia resta in realtà un diffuso malcontento per la composizione del governo, che include non pochi uomini compromessi con il passato regime, a cominciare dal primo ministro Mohammed Ghannouci.
Tuttavia, molti elementi fanno ritenere che la transizione sia solidamente avviata. In primo luogo, è uscito di scena l’intero nucleo familiare di Ben Ali. In secondo luogo, il governo transitorio ha preso provvedimenti nei confronti dei membri più vistosamente corrotti della famiglia estesa dell’ex presidente.
In terzo luogo, incarichi chiave sono stati conferiti a personalità universalmente apprezzate: Yadh Ben Achour, proveniente da un’eminente famiglia di muftì, dovrà scrivere la bozza di una nuova costituzione; Mustafa Nabli, ex funzionario della Banca Mondiale, dirige ora la banca centrale; soprattutto, Taoufik Bouderballah, giurista ed ex-presidente della lega tunisina dei diritti umani, è stato messo a capo della commissione che dovrà accertare la violazione dei diritti umani; uno sviluppo, quest’ultimo che di per sé attesta che sta avanzando un processo di reale cambiamento. In quarto luogo, è in atto un dialogo fra le emergenti forze politiche del paese.
Tutto ciò fa ritenere che in Tunisia la fase più acuta della crisi sia finita e che sia iniziata una transizione verso un regime più aperto e democratico.
L’ipoteca dei militari
Non è così in Egitto, dove il presidente Hosni Mubarak è per ora ancora in sella, anche se la sua famiglia è riparata a Londra, compreso il figlio Gamal, l’erede designato. È stato nominato un vicepresidente, funzione vacante sin da quando Mubarak è in carica, nella persona del capo dei servizi segreti, generale Omar Suleiman, rispettato all’estero, ma impopolare in patria. A capo del governo è stato nominato il capo dell’aviazione civile, l’ex capo di stato maggiore dell’aeronautica, Ahmed Shafik.
È chiaro che la dinastia Mubarak è definitivamente tramontata e che l’anziano e malato presidente resta in carica solo per passare le consegne ai militari. Potrà questo esito soddisfare gli egiziani? Difficile a dirsi poiché il movimento di protesta è privo di guida politica e non ha obiettivi precisi, anche se in Egitto, a differenza della Tunisia, la componente islamista è più vertebrata, minore è il peso delle forze liberali ed esiste una componente salafita che in Tunisia o non c’è o è assai ridotta. Non è detto che l’assestamento in atto basti: la rivolta potrebbe continuare almeno fino alla definitiva uscita di scena di Mubarak.
Mentre è probabile che Mubarak vada in esilio, lo è molto meno che i militari facciano un passo indietro. I militari egiziani sono una cosa ben diversa da quelli tunisini. Hanno molto colpito le scene di fraternizzazione fra i “difensori della nazione” e il popolo, ma dalla caduta di re Farouk nel 1952 i militari sono piuttosto i governanti che i difensori della nazione e, se il popolo dovesse chiedere di più, in particolare un ridimensionamento del loro potere, la maschera della fraternizzazione verrebbe immediatamente a cadere. C’è dunque anche il rischio che i moti egiziani si trasformino in un bagno di sangue senza sbocco. Se viceversa si avviasse una transizione politica, difficilmente avrebbe come obiettivo la democratizzazione del paese o, almeno, è probabile che lo avrebbe in modo più incerto e ambiguo che in Tunisia.
Paure e dilemmi dell’Occidente
Il carattere e la direzione dei cambiamenti politici in Tunisia ed Egitto, come anche la possibilità che l’onda della protesta popolare raggiunga altri paesi dipenderanno in misura non irrilevante dalla politica e dai comportamenti degli alleati occidentali.
Pur auspicando a parole riforme politiche e democratizzazione, i paesi occidentali sono stati finora stretti alleati dei regimi al potere in cambio di un appoggio ai loro obiettivi di politica estera nella regione: la sicurezza di Israele; il contrasto all’Iran; la lotta ai movimenti islamisti radicali che praticano il terrorismo. Per non parlare degli interessi economici e finanziari.
La caduta del regime militare egiziano sarebbe gravida di conseguenze per la politica regionale dell’Occidente. In mano a un governo islamista o a una coalizione di islamisti e nazionalisti, l’Egitto potrebbe rimettere in questione la pace con Israele e destabilizzare così l’intera regione. Un altro scenario è che un rinascente Egitto sunnita animi una coalizione contro gli sciiti e metta in fiamme la regione, rompendo anche l’attuale equilibrio fra estremisti e moderati in Arabia Saudita.
Anche il futuro della Tunisia desta preoccupazione, anche se in misura minore, poiché meno rilevante è il suo ruolo regionale. Si teme, fra l’altro, che le succursali di Al Qaida possano approfittarsi del caos tunisino per rafforzarsi e reclutare nuovi militanti nel Maghreb e nel Sahel.
In realtà, gli eventi di questi giorni hanno messo a nudo la debolezza dei gruppi islamisti, non solo in Tunisia, ma anche in Egitto, dove solo una maldestra gestione della transizione da parte dei militari e degli occidentali potrebbe dargli forza. Il ruolo di Al Qaida e, più in generale, dell’islamismo è esagerato a bella posta dai fautori arabi e occidentali dello status quo. D’altra parte, è proprio facendo leva sull’autoritarismo e l’incompetenza dei regimi che i movimenti islamisti sono riusciti a conquistare consenso e a ritagliarsi uno spazio d’azione.
Per i governi occidentali è arrivato il momento di scegliere. Possono puntare a favorire cambiamenti puramente cosmetici, che lascerebbero inalterata la natura dei regimi. Oppure spingere per un vero cambiamento, uscendo dall’ambiguità fra riforme e stabilità in cui sono oggi impigliati. In realtà, se scegliessero questa seconda opzione, potrebbero anche sperare di rafforzare la loro posizione e le loro alleanze nella regione.
In Tunisia, si può scommettere più facilmente su un cambiamento non destabilizzante per gli equilibri regionali e che salvaguardi gli interessi occidentali. In Egitto è effettivamente necessaria una maggiore dose di prudenza e, forse, anche più tempo. Tuttavia, in entrambi i casi, i governi occidentali hanno mostrato finora un’incertezza sconcertante, che non è di buon auspicio per il futuro della nostra sicurezza e del nostro benessere.
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