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Dopo Ben Ali

La miopia di Italia e Francia sul futuro della Tunisia

23 Gen 2011 - Roberto Aliboni - Roberto Aliboni

La dinamica degli sviluppi in Tunisia non è ancora chiara. Il regime ha certamente perso l’appoggio dei militari, che però sono intervenuti finora solo per contenere le violenze. Il loro ruolo appare politicamente sbiadito: potrebbe anzi essere funzionale a un progetto di adattamento piuttosto che di reale cambiamento del regime. Stati Uniti e Unione europea, da parte loro, hanno ripudiato il regime di Ben Ali ed espresso il loro sostegno ad un cambiamento pacifico verso la democrazia. È probabile però che un’azione incisiva venga più dagli americani che dagli europei. Non pochi paesi europei hanno infatti sostenuto apertamente Ben Ali come baluardo contro fondamentalisti ed emigranti. Ora sono pronti a gettare il vecchio regime alle ortiche, ma a patto che il nuovo sappia assolvere altrettanto bene i compiti di sicurezza. Questo atteggiamento caratterizza, in particolare, i governi di Francia e Italia.

Sbocco incerto
Non è chiaro dove il paese andrà a parare. Il presidente è fuggito, stipando l’aereo con l’oro appena prelevato dalla banca centrale e confermando così, se mai ce ne fosse stato bisogno, il grottesco livello di corruzione del regime. Tuttavia, che cosa stia accadendo del regime non è chiaro: di fatto, i più diretti e sperimentati collaboratori di Ben Ali, a cominciare dal primo ministro Mohammed Ghannouci, hanno preso in mano il governo. Hanno chiamato esponenti dell’opposizione a farne parte, i quali però si sono dimessi dopo poco, per non avallare un’operazione trasformistica.

Dall’estero, il leader islamico Rachid Ghannouci (nessuna parentela con il primo ministro Mohammed) ha fatto dichiarazioni più che moderate, confermando così la debolezza dell’opposizione religiosa. Ironicamente, proprio lo spauracchio dei movimenti islamisti è stato agitato per 23 anni dal regime per legittimarsi. In realtà, una dura oppressione ha fiaccato e disperso le opposizioni, religiose e non, e nessuna chiara leadership si profila all’orizzonte.

Si è aperta insomma una concreta prospettiva di cambiamento democratico, che potrà però realizzarsi solo se avrà il sostegno di attori esterni, in particolare dell’Europa e degli Stati Uniti. Entrambi hanno in effetti cercato di promuovere l’avvento della democrazia nei paesi arabi sin dagli anni novanta, ma commettendo gravi errori, come il mancato riconoscimento della vittoria elettorale di Hamas in Palestina, e ottenendo risultati assai modesti.

Democratizzazione a rischio
Tuttavia, l’impegno resta ed è stato ribadito dal presidente Obama (anche con più chiarezza degli europei). La Tunisia è un’occasione importante perché Europa e Stati Uniti possano riprendere una politica di promozione della democrazia. In effetti, Stati Uniti e Europa hanno assicurato il loro sostegno ad una transizione pacifica alla democrazia per il tramite di elezioni organizzate con la piena e genuina partecipazione dell’opposizione. Il presidente Obama, riprendendo finalmente lo spirito del discorso del Cairo, ha rivolto un appello al governo tunisino per “elezioni libere ed eque nel prossimo futuro che riflettano la vera volontà e le aspirazioni del popolo tunisino”. La baronessa Ashton, Alto rappresentante della politica estera europea, e il commissario europeo Stefan Füle hanno emesso una dichiarazione di tenore analogo, promettendo sostegno logistico alle operazioni elettorali e aiuti economici straordinari.
Scarsa lungimiranza
La Francia ha esitato molto prima di pronunciarsi sulla crisi. Secondo quello che riporta Bernard Lévy, il ministro degli Esteri francese all’inizio della crisi ha offerto “a una dittatura in agonia il ‘savoir-faire’ delle forze di sicurezza francesi. Lo stesso ministro – aggiunge Lévy – credendo di scusarsi, dà un’intervista al Journal du Dimanche in cui protesta tre volte la propria volontà di non ingerenza…”. Il New York Times riporta una dichiarazione del portavoce del ministero degli Esteri, che dopo aver ripetuto che il principio fondamentale cui la Francia si rifà è quello della non ingerenza, aggiunge: “La nostra priorità in Tunisia era di fermare il bagno di sangue. Ora, avvenuto il cambiamento, li aiuteremo a costruire la loro democrazia e li aiuteremo ancora sulla strada dello sviluppo economico, che è quello che ha dato esca al problema”.

L’Italia ha dato un appoggio a Ben Ali non meno solido di quello francese, anche se meno enfatico. Tuttavia, il ministro degli Esteri Frattini in un’intervista al Corriere della Sera è stato meno diplomatico di quello francese: “Credo si debbano sostenere con forza i governi di quei Paesi, dal Maghreb all’Egitto, nei quali ci sono re o capi di Stato che hanno costruito regimi laici tenendo alla larga il fondamentalismo. La priorità numero uno è la prevenzione del fondamentalismo e degli embrioni di terrorismo”. In un altro punto dell’intervista, il ministro sottolinea l’immediato sostegno che il governo italiano ha dato a Ghannouci, nel momento in cui questi ha cercato di colmare il vuoto lasciato dalla fuga di Ben Ali, “per confermare la volontà [dell’Italia] di una collaborazione forte sulla sicurezza. Anche per evitare una sensazione di apertura delle dighe migratorie approfittando della confusione”.

Quello che Francia e Italia, e probabilmente anche altri paesi dell’Ue, desiderano è dunque una transizione dolce verso un regime che, rimuovendo le aberrazioni di Ben Ali, rassicuri tuttavia gli europei sul fronte della sicurezza. Dopo tutto, anche le dichiarazioni a livello Ue riflettono questo approccio, che mette in secondo piano l’affermazione di una genuina democrazia. È perciò difficile che dall’Europa venga quell’intervento risoluto, di cui il debole spirito della democrazia tunisina ha bisogno per animarsi dopo la lunga traversata del deserto sotto il regime di Ben Ali.

È un approccio poco lungimirante perché, a parte altre considerazioni, trascura l’occasione che la crisi in Tunisia fornisce per recuperare credibilità presso gli arabi. Le reticenze europee gettano una crude luce sul cambiamento che si è verificato nella strategia europea: dall’obiettivo di contribuire alla creazione, nel vicinato, di un cerchio di paesi ben governati e democratici che, in quanto tali, siano anche fattori di stabilità, a quello di sostenere i regimi al potere affidando la nostra sicurezza alla loro stabilità. La crisi in Tunisia, più di ogni altro sviluppo recente, conferma che questa è la strategia che prevale oggi. Il governo italiano è tra quelli che la propugnano e perseguono con maggiore coerenza, benché proprio il caso tunisino abbia reso evidenti i non pochi rischi che essa comporta.

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