Tra americani e sauditi riparte l’intesa
Il governo americano è intenzionato a sottoporre al Congresso un contratto da 60 miliardi di dollari per il trasferimento di equipaggiamenti e tecnologie militari all’Arabia Saudita. In base a quanto emerso, le forniture dei caccia F-15 Eagle e degli elicotteri Apaches, Black Hawks e Little Birds potenzierebbero le forze armate di un regime saudita sempre più preoccupato dell’aggressività iraniana nella regione, e in particolare degli sviluppi del discusso programma nucleare avviato da Teheran. L’accordo dovrebbe includere anche missili antiradar Harm e anticarro Hellfire, nonché munizioni ad alta precisione Jdam.
La notizia desta particolare interesse poiché in seguito agli attacchi dell’11 settembre, la storica partnership strategica tra Washington e Riyadh aveva subito un brusco raffreddamento, determinando una sostanziale riduzione del trasferimento di armamenti americane al regime saudita. Tuttavia, nuove esigenze impongono all’amministrazione Obama una netta virata rispetto alle posizioni assunte nell’ultimo decennio, nel tentativo di ristabilire uno dei capisaldi della politica di sicurezza americana in Medio Oriente.
Relazione molto speciale
Nel 1941 Franklin Delano Roosevelt negò il ricorso al Lend-Lease Program per fornire assistenza finanziaria al regime di Abd al-Aziz Ibn Saud, giudicando l’Arabia Saudita troppo lontana dagli interessi nazionali americani. Tuttavia, nel giro di qualche anno, il presidente americano cambiò opinione sulla rilevanza strategica della penisola arabica e nel 1945, a bordo dell’incrociatore Uss Quincy, strinse con il sovrano saudita una delle più significative alleanze della storia degli Stati Uniti. Un’alleanza fondata sul petrolio, tra il maggiore consumatore e il più promettente produttore di greggio del mondo, ma soprattutto sulla lotta all’espansione sovietica nella regione mediorientale. Lo strumento militare divenne così ben presto il fulcro della cooperazione tra Washington e Riyadh.
A partire dalla seconda metà degli anni ’40, infatti, gli Stati Uniti hanno installato le loro basi aeree e inviato cospicui contingenti militari in territorio saudita, hanno avviato un ambizioso programma di pianificazione e addestramento per le forze armate del regno e ne hanno favorito il rafforzamento attraverso un’energica politica di esportazione di armamenti ed equipaggiamenti militari. Nel dopoguerra il governo saudita è diventato uno dei principali clienti dell’industria bellica statunitense tanto che le esportazioni di armamenti e tecnologie Usa verso Riyadh hanno raggiunto, a un certo punto, il 20% di tutti i trasferimenti di armi americane all’estero.
Durante la Guerra Fredda questa relazione speciale è stata messa alla prova in diverse occasioni. Tuttavia, nonostante le divergenze su Israele, le tensioni durante i mesi dell’embargo selettivo applicato dall’Opec in risposta alla Guerra dello Yom Kippur, e l’antitetico approccio in materia di diritti umani, il sostegno reciproco tra Washington e Riyadh ha retto.
La frenata post -9/11
Sebbene la fine della Guerra Fredda e la caduta della minaccia comunista abbiano determinato un parziale raffreddamento delle relazioni, è con gli avvenimenti dell’11 settembre 2001 che l’alleanza tra i due paesi subisce un inevitabile deterioramento. La diretta partecipazione di 15 terroristi sauditi alla pianificazione ed esecuzione degli attentati alimentano nell’opinione pubblica statunitense un forte senso di avversione per la cooperazione con Riyadh. L’establishment politico americano s’interroga a sua volta sull’affidabilità del regime saudita come alleato strategico nella regione.
Alcune iniziative del Congresso americano mostrano chiaramente la crescente insofferenza nei confronti di Riyadh. Nell’agosto 2007 un nutrito gruppo bipartisan di parlamentari chiedeva esplicitamente al Presidente in carica, George W. Bush, di bloccare un accordo per la vendita di equipaggiamenti militari all’Arabia Saudita (per un valore di circa 20 miliardi di dollari). Nel gennaio 2008, con una risoluzione bipartisan la Camera dei rappresentatisi opponeva alla vendita di 900 munizioni Jdam al paese arabo.
Sebbene il Congresso non abbia mai approvato atti vincolanti per bloccare tali trasferimenti, negli anni successivi agli attacchi alle torri gemelle, le esportazioni di armamenti verso Riyadh si sono ridotte drasticamente, mentre sono aumentate quelle verso paesi quali l’Iraq (in seguito all’invasione), la Turchia, il Pakistan e Israele. Al contempo, Francia, Gran Bretagna e di recente anche la Russia, hanno approfittato dell’uscita di scena americana per intensificare il remunerativo business militare col paese.
Balance of Power del Golfo
La potenza iraniana avanza nel Golfo Persico e sia Washington che Riyadh ne sono fortemente preoccupati. Con uno situazione in Iraq ancora precaria l’Arabia Saudita emerge come ideale candidato per il ruolo di balancer regionale.
Oltre al nuovo contratto per la fornitura di armamenti, gli Stati Uniti sono ora impegnati in negoziati con Riyadh per rafforzare ulteriormente il ruolo dell’Arabia Saudita come bastione contro il regime teocratico iraniano nel Golfo. Washington vuole convincere i sauditi ad espandere la propria difesa anti-missilistica attraverso l’acquisto del sistema Thaad (Terminal High Altitude Defense) e ad ammodernare le batterie di missili Patriot già in dotazione alle loro forze. Dall’altro, l’amministrazione Usa sta negoziando un pacchetto da 30 miliardi di dollari per rinnovare e rafforzare la flotta navale saudita, nel caso (non remoto) in cui le forze speciali di Teheran decidessero di attuare un blocco dello stretto di Hormuz, crocevia fondamentale per le rotte internazionali del petrolio.
I progressi (veri o millantati) del programma nucleare iraniano, accompagnati dalla crescente influenza cinese e russa sul regime di Riyadh, impongono al governo americano di rispondere prontamente e con vigore alla crescenti richieste di stabilizzazione regionale da parte dello storico alleato. È in questo contesto in rapida evoluzione, che si colloca la più grande vendita di armamenti bellici mai effettuata nella storia dagli Stati Uniti, sebbene non ancora formalizzata. È un altro segno del pragmatismo dell’amministrazione Obama che, accantonate (almeno in parte) le frizioni del post-11 settembre, sembra puntare a un riavvicinamento strategico con i sauditi in nome della realpolitik.
.
Vedi anche:
G. Gramaglia: Obama tiene l’Europa, ma perde la Turchia
R. Aliboni: L’illuminismo di Obama e la Realpolitik mediorientale